la requisitoria

Rinascita Scott, le intercettazioni del Ros e le “confessioni” dei fedelissimi del boss Luigi Mancuso

Trojan nei telefonini e microcamere nei luoghi dei summit mafiosi: così la Dda punta a dimostrare l'unitarietà della 'ndrangheta vibonese
Rinascita Scott

Microspie e telecamere nei luoghi dove sono avvenuti summit mafiosi, spywere iniettati negli smartphone e nelle mail. Una capillare attività di monitoraggio che il pm antimafia Andrea Mancuso definisce “imponente”. E’ il lavoro sviluppato dai carabinieri del Ros di Catanzaro. Una mole impressionante di intercettazioni soprattutto ambientali che raccoglie svariati colloqui tra i presunti affiliati alla ‘ndrangheta vibonese registrati nella campagna di Pasquale Gallone, braccio destro del super boss Luigi Mancuso; nell’area del self service del Cin Cin Bar messo a disposizione degli “accoscati” da Gianfranco Ferrante; nell’ufficio degli imprenditori Artusa a Vibo; nella proprietà di Silvana Mancuso a Joppolo. In auto e in altri ambienti tramite i trojan inoculati nei telefonini di Giovanni Giamborino, Mario Artusa, Gianfranco Ferrante, Pasquale Gallone. Prosegue la requisitoria della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro nell’ambito del maxiprocesso Rinascita Scott. Nell’aula bunker di Lamezia Terme, dopo Antonio De Bernardo la parola passa ad Andrea Mancuso che fa parlare gli imputati attraverso le conversazioni captate dagli investigatori del Ros di Catanzaro guidati dal colonnello Giovanni Migliavacca (presente in udienza) e confluite nelle informative da cui ha preso le mosse l’istruttoria.

Le “gole profonde” di Luigi Mancuso

Le “gole profonde” di Luigi Mancuso

Al centro della requisitoria la figura di Luigi Mancuso e l’unitarietà della ‘ndrangheta vibonese. Il pm Mancuso non cita i collaboratori di giustizia a sostegno del teorema accusatorio ma legge in aula una serie di intercettazioni con le quali gli imputati diventano autentiche “gole profonde”. A parlare sono così i “fedelissimi” del super boss. Tutti, quasi all’unanimità, attribuiscono a Luigi Mancuso un ruolo primario. Da Giamborino a Gallone che parlano con altri presunti affiliati non sapendo di essere ascoltati dai carabinieri del Ros: il boss di Limbadi è “il numero uno della ‘ndrangheta”. Uno che non ama fare “brutte figure” che vuole la pace e non la guerra. Il pm traccia un veloce profilo dello “zio” (così viene definito): dalla scarcerazione avvenuta nel 2012 dopo quasi venti anni di reclusione fino alla “latitanza volontaria” del 2014 per sfuggire al regime di sorveglianza speciale al quale era stato sottoposto e “muoversi liberamente” con l’ausilio dei “fedelissimi” che hanno favorito fino all’arresto protezione, spostamenti, ‘mbasciate. Si passa dalla contrapposizione tra Pantaleone Mancuso, alias Scarpuni, con le articolazioni di ‘ndrangheta “scissioniste” come quella dei Piscopisani, dei Bonavota di Sant’Onofrio o dei Bartolotta di Stefanaconi a un nuovo approccio. Il pubblico ministero si aggancia alle sentenze di processi chiave della storia giudiziaria vibonese come Gringia, Black Money, Costa Pulita che ricostruiscono la stagione delle tensioni tra le varie consorterie criminali fino ad arrivare alla pax mafiosa imposta da Luigi Mancuso: “Uno che vuole mettere pace, cerca la ricomposizione, non vuole fare brutte figure”.

“Siamo tutti una pigna”

In assenza di sentenze che possano certificare questa tesi, il magistrato nel corso della sua requisitoria si rifà alle intercettazioni e fa notare un particolare: la terza persona plurale utilizzata più volte nei dialoghi captati dal Ros. “Brutta figura noi non ne facciamo”, “anche noi abbiamo questa linea”, “noi abbiamo questa filosofia”, “siamo tutti una pigna”. Il protagonista principale delle conversazioni lette in aula dal pm Mancuso è il presunto braccio destro del super boss, Pasquale Gallone, che parla con il luogotenente di Orazio De Stefano, dell’omonima famiglia di Reggio. Il pubblico ministero si sofferma sulla terminologia mafiosa per suffragare la tesi dell’unitarietà della ‘ndrangheta vibonese: dal “noi” alla “mamma è una” fino alla “la famiglia è quella”. Una delle parole maggiormente utilizzate è amici che nella semantica ‘ndranghetistica significa secondo l’interpretazione della pubblica accusa “poter andare in qualsiasi posto o da nessuna parte”. La logica è quella della “mutua assistenza” tra accoscati. Cosa succede a chi subisce e non è partecipe all’organizzazione? Si chiede Andrea Mancuso. E anche qui a parlare è un’intercettazione. Il pm cita una conversazione intercorsa tra l’imprenditore Mario Artusa e l’ex comandante dei vigili urbani di Vibo Valentia Domenico Corigliano. L’oggetto è un immobile che il primo vorrebbe avere in fitto, il secondo vorrebbe invece mettere in vendita. “Ma secondo voi – dice Artusa a Corigliano – chi si comprerà l’immobile sapendo che lo voglio io?”.  

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