Rinascita Scott, le rivelazioni di Ferrante all’aspirante pentito: “Gratteri farà una brutta fine”

Il teste della Dda di Catanzaro conferma in aula le accuse a Pittelli: "E' l'anello dei Mancuso che aiutava anche dai domiciliari"

Cambia solo una parola ma la sostanza resta immutata. Da “perno” ad “anello” della famiglia Mancuso. Antonio Genesio Mangone, 58 anni, originario di Cariati, teste della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro nel maxiprocesso “Rinascita Scott”, conferma in udienza quanto già riferito al pm Antonio De Bernardo in un verbale di sommarie informazioni circa i dialoghi tra alcuni detenuti nel carcere di Siracusa dove si trovava recluso nel 2021. Il “perno” o “l’anello” dei Mancuso sarebbe l’avvocato Giancarlo Pittelli e i due detenuti dai quali Mangone avrebbe ottenuto tali informazioni sarebbero Gianfranco Ferrante, ritenuto un “fedelissimo” dei Mancuso, e Michelangelo Barbieri, nipote del boss di Zungri Giuseppe Accorinti. Il teste dell’accusa, condannato a 12 anni di reclusione per associazione mafiosa (ritenuto vicino all’articolazione veneta dei Grande Aracri) ed estorsioni, aspirante collaboratore di giustizia (non ammesso ancora nel programma di protezione) conferma in aula: “Pittelli fa parte della famiglia Mancuso. Tutti i problemi che avevano li risolveva l’avvocato Pittelli. Gestiva tutte le problematiche mettendo a disposizione le sue conoscenze e le sue amicizie. Se c’erano dei problemi, lui li risolveva. Apriva conti correnti, faceva ottenere agevolazioni bancarie, sanitarie, aveva rapporti con persone importanti, con direttori di banca anche politici, agganciava la pubblica amministrazione. Era l’anello della famiglia Mancuso”. Rispondendo alle domande del pm Andrea Mancuso, Mangone dice di aver appreso tutto ciò dalla viva voce di Gianfranco Ferrante che con Pittelli “aveva un rapporto diretto”. Lo stesso Ferrante – conferma il teste – sperava che l’avvocato catanzarese uscisse dal “calderone” del processo perché tramite le sue conoscenze potevano essere risolti i loro problemi giudiziari. “Quando Ferrante – rivela Mangone – parlava di Pittelli gli brillavano gli occhi. Era quello che poteva scagionarli. Attraverso le sue conoscenze e le sue amicizie poteva sbloccare il sistema smantellato dalla Procura di Catanzaro che aveva fatto le cose giuste”.

“Pittelli aiutava i Mancuso anche dai domiciliari”

“Pittelli aiutava i Mancuso anche dai domiciliari”

L’ex parlamentare di Forza Italia avrebbe continuato ad aiutare i Mancuso anche dai domiciliari e qui le accuse di Mangone si fanno inquietanti anche se tutte da accertare: “Poteva telefonare, agire e fare favori anche dagli arresti domiciliari”, gli avrebbe riferito Ferrante. “Pittelli – aggiunge – aveva la possibilità di agire direttamente per risolvere i problemi e doveva uscire da questo calderone per andare a fare ciò che ha sempre fatto”. Con l’esterno, in questo caso direttamente dal carcere, avrebbero comunicato anche Ferrante e Barbieri, detenuti nella stessa sezione del carcere di Siracusa insieme a Mangone: “Avevano cellulari piccolini e parlavano quando volevano nel bagno della cella. Chiamavano due o tre volte a settimana” dichiara l’aspirante collaboratore di giustizia.

Le minacce a Gratteri e il disprezzo verso i pm antimafia

Nel corso dell’escussione, un capitolo particolare è stato dedicato al presunto disprezzo captato dallo stesso Mangone nelle celle del carcere di Siracusa nel corso dei dialoghi tra Gianfranco Ferrante e alcuni imputati, tra i quali Salvatore Bonavota, esponente di spicco dell’omonima famiglia di ‘ndrangheta di Sant’Onofrio. Parlando con quest’ultimo alla presenza del teste, Ferrante rivelava: “Al momento giusto – riferisce Mangone in udienza riportando le parole dell’imputato – faremo fare una brutta fine a Gratteri e ai suoi collaboratori perché noi siamo nati prima della legge e comandiamo noi. Non siamo finiti”. Sia Ferrante che Barbieri – secondo quanto riportato dal teste – erano preoccupati per come stava andando il processo. “Siamo nella merda”, commentavano nei loro dialoghi in cella. “Si lamentavano – precisa Mangone – perché la Procura di Catanzaro e Gratteri portavano cose concrete e che i collaboratori di giustizia stavano dicendo la verità ed erano attendibili. Ferrante diceva di essersi pentito di aver fatto l’ordinario e che se faceva l’abbreviato avrebbe fatto meno anni di carcere”.

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