di Gabriella Passariello- Dai riti di affiliazione in una casa di cura al grado di picciotto mettendo in atto una serie di danneggiamenti per poi diventare “camorrista” con l’omicidio di Michele Neri. Il collaboratore di giustizia Andrea Mantella ripercorre in pillole alcuni momenti della sua vita parlando di alleanze e di faide, argomenti che verranno ripresi dettagliatamente martedì prossimo nell’aula bunker di Lamezia dove è in corso il processo Rinascita Scott contro le cosche del Vibonese . “Mi sono inventato la depressione per evitare il carcere con l’aiuto di consulenti”, il pentito fa riferimento agli arresti domiciliari trascorsi nella struttura sanitaria di “Villa Verde”, raccontando che con lui c’era Bevilacqua “non ricordo il nome” del clan degli zingari, Samuele Lovato, affiliato a Tonino Forastefano della Sibaritide.
“A Villa Verde facevo quello che volevo”
“A Villa Verde facevo quello che volevo”
“Qui facevo quello che volevo, comunicavo dall’interno all’esterno, Lovato era una sorta di mio accompagnatore, puliva la piastra quando facevamo le cene, cucinando il pesce”. A Villa Verde riceveva molte persone, tra cui un imprenditore di Vibo che un giorno gli aveva portato un vassoio di dolci: “ci guardammo in faccia e mi fece segno che lì dentro c’erano banconote”. Ma in quella casa di cura andavano a fargli visita anche Salvatore Morelli, “il mio erede naturale”, Antonio Pardea, Salvatore Mantella, Salvatore Bonavota “e lì a Villa Verde c’erano dei riti di affiliazione o meglio degli avanzamenti di dote”, facendo, tra gli altri, i nomi di Domenico Macrì e Antonio Pardea.
Il primario amico e “l’illustre avvocato che mi scarcerò”
Il collaboratore di giustizia ha anche parlato di un primario, appartenente alla massoneria deviata: “gli feci regali costosissimi, rolex, B&B e lui faceva licenziare anche dottori che non erano di mio gradimento”. Tentò poi di scappare dalla struttura sanitaria, perché stava per essere raggiunto da un’altra misura di custodia cautelare in carcere, fuga fallita, perché venne catturato dalla polizia: “Sborsai 70mila euro per essere scarcerato da un illustrissimo avvocato del foro di Catanzaro” ma non pronuncia nome e cognome del legale “e in effetti dopo 15 giorni fui scarcerato”.
La “rete massonica” e i processi da aggiustare
Mantella ha quindi riferito dell’esistenza di una vasta rete massonica che si attivava ogni volta che c’era da aggiustare un processo nei confronti di boss e gregari delle cosche di ‘ndrangheta del Vibonese. Il collaboratore ha citato come esempio quanto accaduto dopo l’omicidio di Ferdinando Manco. “La perizia balistica sulla salma mi inchiodava all’omicidio. Rischiavamo l’ergastolo” ha detto il pentito che, dopo quel delitto, si diede alla macchia. Nello stesso tempo chiese a suo cognato Antonio Franzè di intervenire e questi, ha proseguito Mantella, attraverso il commendatore Carmelo Fuscà attivò la “rete di copertura massonica deviata” che, a detta del collaboratore, raggiunse il giudice lametino Michele Amatruda “che era vicino ai Giampà”. “Ci siamo costituiti con la promessa che non saremmo stati condannati a più di 16 anni” ha dichiarato Mantella raccontando che la condanna fu di 14 anni in primo grado e 12 in secondo grado.
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