di Gabriella Passariello- Due stagiste dell’Ufficio esecuzioni penali della Corte di appello di Catanzaro costrette a subire vessazioni, atti persecutori e di più. Una, palpeggiata sul fondo schiena, l’altra toccata al seno e baciata sulle labbra. Il gup del Tribunale di Catanzaro Paola Ciriaco ha rinviato a giudizio l’assistente giudiziario, ora in pensione, Piero Giorio, 66 anni, con l’accusa di stalking. Il processo inizierà il 21 giugno davanti ai giudici del Tribunale collegiale. Secondo le ipotesi di accusa entrambe hanno respinto le avance un rifiuto che è costato caro alle due tirocinanti, perché il dipendente avrebbe preteso da una di loro lo svolgimento di mansioni esorbitanti o comunque non confacenti all’oggetto del tirocinio, come il trasporto diretto e di persona nella sua stanza dei fascicoli da lavorare e una serie di atteggiamenti provocatori in cui l’assistente giudiziario avrebbe fatto valere la sua superiorità gerarchica qualificando la ragazza con l’appellativo di “semplice commessa”. Nei confronti dell’altra vittima avrebbe all’inizio assunto un comportamento di distacco e di indifferenza, poi trasformatosi in atteggiamento sprezzante, arrogante e vessatorio. Una storia di prevaricazioni consumatisi negli uffici della Corte di appello e riferita dalle due tirocinanti, non solo ad altri dipendenti, ma anche ai dirigenti del loro ufficio, ricevendo come risposta di desistere dall’intraprendere qualsiasi iniziativa contro l’assistente giudiziario o negando un confronto diretto con le vittime. Una vicenda, che rischiava di risolversi in una bolla di sapone. Il magistrato, titolare del fascicolo, Corrado Cubellotti, dopo aver iscritto il dipendente nel registro degli indagati, ne aveva chiesto l’archiviazione al gip, che con ordinanza ha disposto al pm l’imputazione coatta per Giorio, non lasciando alcuna scelta al pubblico ministero se non procedere con la richiesta di rinvio a giudizio. Ma ripercorriamo i fatti processuali.
I colleghi sapevano
I colleghi sapevano
I dipendenti ai quali era stato riferito l’accaduto si erano mostrati solidali con le tirocinanti, narrando episodi analoghi che altre persone avrebbero subito dall’indagato, salvo poi ritrattare tutto quando sono stati convocati dal pm a sommarie informazioni. Il pubblico ministero aveva fatto un passo indietro, chiedendo l’archiviazione del 66enne sul presupposto che i comportamenti denunciati non apparivano tali da integrarsi nel reato di stalking, “non presentano quella pervasività idonea a provocare uno stravolgimento generale della vita delle persone offese, dovendosi più correttamente circoscrivere la portata offensiva al solo contesto lavorativo”.
Il dietro front del pm
A parere del magistrato, “le condotte persecutorie non sono mai debordate in atti di violenza o minaccia di rilevante gravità”. Tuttavia pur non integrando gli estremi del reato di stalking, erano riconducibili “ad una diversa fattispecie che consiste nell’ abituale denigrazione, vessazione ed umiliazione posto in essere sui luoghi di lavoro da colleghi o superiori gerarchici ai danni di altri colleghi o dipendenti finalizzata ad ottenerne l’isolamento o addirittura il licenziamento”. In sostanza si sarebbe trattato di mobbing che “tuttavia – si legge nella richiesta di archiviazione – questi comportamenti pur essendo scevri da profili di rilevanza penale, producono comunque dei sensibili effetti di turbamento e frustrazione psicologica in chi li subisce, ragion per cui le vittime devono comunque ricevere un’adeguata tutela nelle sedi civili competenti, in termini di risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale patito”. Il magistrato aveva escluso anche l’ipotesi del reato di violenza sessuale subito dalle tirocinanti, trattandosi di un unico episodio, non reiterato nel tempo, dovendosi invece parlare “di uno spregiudicato e sconveniente tentativo di approccio sessuale”.
“Richiesta di archiviazione illogica”
Una richiesta di archiviazione definita “illogica” dall’avvocato Valerio Murgano, difensore di una delle parti lese, che si è opposto alla richiesta di archiviazione, chiarendo che i fatti narrati dalle tirocinanti “delineano un contesto allarmante nel palazzo di giustizia della Corte di appello di Catanzaro. Il pm, titolare del fascicolo, non dimostra di dubitare del racconto delle vittime, ma ritiene erroneamente che le condotte non integrino alcuna fattispecie di reato, nonostante le stesse abbiano rappresentato con dovizia di particolari i gravi comportamenti subiti dall’assistente giudiziario”. A parere del legale, l’assistente giudiziario avrebbe abusato della sua funzione di pubblico ufficiale, con comportamenti vessatori, proseguiti ben oltre la consumazione del reato a sfondo sessuale “determinando un grave stato di ansia e turbamento tale da modificare le abitudini di vita, i rapporti con i colleghi e le stesse scelte lavorative”, sottolineando il clima di omertà “proprio all’interno di quelle istituzioni che simili atteggiamenti dovrebbe contrastare. Il clima di reticenze appare ancora più evidente nelle trascrizioni dei file audio prodotti dalle persone offese e che il pm neanche cita nell’atto. Le registrazioni attestano che le due ragazze hanno provato a lamentarsi e a risolvere il problema denunciando tutto ai loro dirigenti, senza ricevere tutela, anzi sono state avvertite del rischio di essere trasferite dalla sede di lavoro, circostanza poi avveratasi”.
Le valutazioni e la decisione del gip
Il giudice ha accolto le tesi difensive dell’avvocato Murgano sul presupposto che “il narrato delle persone offese è di per sé preciso e circostanziato e trova ulteriori conferme anche nelle registrazioni acquisite che confermano come entrambe le donne abbiano tentato inutilmente di ricevere tutela all’interno dell’ufficio. E’ innegabile che i fatti sin qui ricostruiti si concretizzino in una serie di reiterate, sistematiche e gravi condotte persecutorie, che hanno spinto le persone offese a mutare sia pure parzialmente le proprie abitudini lavorative, oltre ad avere ingenerato nel loro animo un forte timore per la loro incolumità fisica e ad avere compromesso la loro serenità sul luogo di lavoro”. Per il gip è assolutamente distonica l’interpretazione del pubblico ministero rispetto al reato di violenza sessuale seppure non formalmente contestato”, richiamando il consolidato orientamento della Suprema Corte, secondo il quale la nozione di atti sessuali comprende “toccamenti, palpeggiamenti e sfregamenti sulle parti intime delle vittime, tali da suscitare la concupiscenza sessuale anche in modo non completo e per un tempo di breve durata”. Da qui l’imputazione coatta per il dipendente ed oggi per lui è arrivato il rinvio a giudizio.