Irene Nasone, infermiera partita da Reggio Calabria per prestare servizio a Treviglio da un anno, ha vissuto l’esperienza terribile, che mai avrebbe potuto immaginare, del Coronavirus, proprio nel centro della morte e della devastazione.
Un’esperienza da lei stessa definita così traumatica dal divenire l’unico pensiero in testa, anche a casa. Nei giorni scorsi qualcuno ha scritto lettere ad un’infermiera residente in un condominio, tacciata di essere pericolosa poiché untore del virus. E per chi vive la tragedia del Covid, soprattutto in Lombardia, le parole ed il pregiudizio possono fare malissimo. Da eroi ad untori, ma per fortuna i singoli episodi, che potrebbero raccontare una realtà, si alternano ad altri che ne raccontano un’altra.
Un’esperienza da lei stessa definita così traumatica dal divenire l’unico pensiero in testa, anche a casa. Nei giorni scorsi qualcuno ha scritto lettere ad un’infermiera residente in un condominio, tacciata di essere pericolosa poiché untore del virus. E per chi vive la tragedia del Covid, soprattutto in Lombardia, le parole ed il pregiudizio possono fare malissimo. Da eroi ad untori, ma per fortuna i singoli episodi, che potrebbero raccontare una realtà, si alternano ad altri che ne raccontano un’altra.
Ed è la stessa Irene a raccontarlo. La sua storia, riportata ai bergamaschi dal sito PrimaTreviglio.it, rappresenta tanto, soprattutto dopo alcune uscite infelici contro i meridionali apparse di recente alla ribalta nazionale. Lei, calabrese, tornando a casa ha trovato una lettera, scritta da un’altra persona residente nel suo condominio. Una bimba di 8 anni, Viola, che a nome del fratello, di mamma e papà, ha preparato un regalino per Irene. Un coniglietto con tanti colori, per rappresentare la speranza, per lei e i suoi colleghi.
Le parole di Irene Nasone
“In un periodo storico in cui sembra essere riemersa la differenza tra “nord e sud”, in cui i medici e gli infermieri vengono visti come pericolosi untori ai quali lasciare messaggi minacciosi nella cassetta delle lettere, esistono anche esempi di bellezza. Ed è giusto parlarne perché il bene va raccontato, almeno ogni tanto per ricordarsi che c’è. Sono un medico in formazione specialistica in medicina d’emergenza, al primo anno. Da circa sei mesi mi trovo a Treviglio e sto lavorando nel pronto soccorso di quello che è diventato a tutti gli effetti un ospedale per pazienti Covid-19. Sono originaria di Reggio Calabria e qui sono sola, senza parenti o amici. In questi mesi mi sono ritrovata ad affrontare situazioni che non avrei mai potuto immaginare.
“Tornando a casa dal lavoro in una casa vuota non facevo altro che rivivere ancora e ancora quello che avevo affrontato in ospedale. Rivedevo continuamente quei corridoi invasi dalle bombole di ossigeno, quelle barelle piene di sguardi impauriti, quelle mani “sporche” che nessuno poteva stringere se non attraverso degli sterili guanti. In mezzo a tutto quel dolore si inseriva il sorriso quotidiano di quando tornando a casa trovavo dei bigliettini attaccati alla porta. Erano da parte dei miei vicini, persone che io non conosco e che non ho mai visto di persona. Avendo saputo il lavoro che svolgo, hanno pensato di starmi accanto attraverso dei pensieri e qualche piccolo regalo. Chi scrive è Viola, una bambina di 8 anni che mi chiede come sto, come è andata a lavoro e conclude ogni lettera con un arcobaleno. In questo difficile periodo lei mi ha fatto compagnia, mi ha insegnato ad attendere quell’appuntamento epistolare con gioia, immaginando una realtà a colori. Mi ha regalato la sua amicizia con una spontaneità disarmante riaccendendo in me un sentimento di speranza, come solo i bambini sanno fare”.