Un viaggio bellissimo intorno all’uomo, il Covid ha insegnato tante cose

Di Felice Foresta (Avvocato, e Consigliere dell’Ordine degli Avvocati di Catanzaro) – Andrà tutto bene. Lo abbiamo letto dappertutto. Un salmo virtuale, eppure immancabile come il pane. Una preghiera laica. Ruvida come i grani di un rosario e di cartapesta. Recitata da bambini e anziani. Estorti, forse troppo, alla loro contigua e insurrogabile naturalezza. Disegnata a tempera sui volti, tumefatti dalla stanchezza e dalla paura, di medici e infermieri. Eroi inversi di un tempo senza eroi.

Andrà tutto bene è stato un mantra o la scorciatoia di un esorcismo? Mi piace credere che, andrà tutto bene, sia stato non solo il collante delle nostre coscienze incredule e smarrite. L’ultimo aggancio cui adagiare il nostro modo di declinare la vita, mentre, in moltissime parti della nostra gracile nazione, vacillava la percezione stessa dell’idea di sopravvivenza. In questo tempo, in cui siamo stati fortemente sommersi prima di essere salvati, dovremmo sentire tutti il dovere di guardare oltre. Per non confinarci in una concezione troppo incline a pensieri ultimi. Il bene è ciò cui ogni cosa tende. Ammoniva Aristotele nell’Etica Nicomachea. E’, dunque, al bene cui dobbiamo sentire l’insopprimibile esigenza morale e sociale di guardare. Anche se, ripensando a mente fredda ai giorni scorsi, è stato forte il timore di essere assediati da un senso di finitudine, sconfitta e terrore. Il lascito immediato che morti senza nome ci hanno consegnato senza remore e senza soluzione di continuità. Viviamo tutti una dimensione anfibia. Soprattutto chi opera nel cosmo indecifrabile, eppure affascinate, della Giustizia, e si trova a dimenarsi tra principi estremi. Giusto e sbagliato. Amore e morte. Vero e falso. Bene e male. La storia dell’uomo, del resto, è la storia delle sue contraddizioni. Un paradigma ineludibile per chi ha la nettezza d’animo e lo spirito critico per mettersi in discussione, per rivisitare i propri dogmi e le proprie certezze. L’assioma non è solo il precipitato dei tanti negoziati che, in questi giorni di esilio domestico, abbiamo dovuto fare con noi stessi. E’, forse e prima di ogni cosa, la percezione che una visione del mondo non andava bene, e nonostante tutto, abbiamo continuato a coltivarla.

Andrà tutto bene è stato un mantra o la scorciatoia di un esorcismo? Mi piace credere che, andrà tutto bene, sia stato non solo il collante delle nostre coscienze incredule e smarrite. L’ultimo aggancio cui adagiare il nostro modo di declinare la vita, mentre, in moltissime parti della nostra gracile nazione, vacillava la percezione stessa dell’idea di sopravvivenza. In questo tempo, in cui siamo stati fortemente sommersi prima di essere salvati, dovremmo sentire tutti il dovere di guardare oltre. Per non confinarci in una concezione troppo incline a pensieri ultimi. Il bene è ciò cui ogni cosa tende. Ammoniva Aristotele nell’Etica Nicomachea. E’, dunque, al bene cui dobbiamo sentire l’insopprimibile esigenza morale e sociale di guardare. Anche se, ripensando a mente fredda ai giorni scorsi, è stato forte il timore di essere assediati da un senso di finitudine, sconfitta e terrore. Il lascito immediato che morti senza nome ci hanno consegnato senza remore e senza soluzione di continuità. Viviamo tutti una dimensione anfibia. Soprattutto chi opera nel cosmo indecifrabile, eppure affascinate, della Giustizia, e si trova a dimenarsi tra principi estremi. Giusto e sbagliato. Amore e morte. Vero e falso. Bene e male. La storia dell’uomo, del resto, è la storia delle sue contraddizioni. Un paradigma ineludibile per chi ha la nettezza d’animo e lo spirito critico per mettersi in discussione, per rivisitare i propri dogmi e le proprie certezze. L’assioma non è solo il precipitato dei tanti negoziati che, in questi giorni di esilio domestico, abbiamo dovuto fare con noi stessi. E’, forse e prima di ogni cosa, la percezione che una visione del mondo non andava bene, e nonostante tutto, abbiamo continuato a coltivarla.

Nel sinedrio scompaginato di queste considerazioni, una m’intriga da giorni, e mi è suggerita dalla dimensione professionale che, nella cattività fisica, si è alimentata, comunque, di buoni propositi accanto a intuibili sofferenze da sosta forzata. Ho sempre immaginato che un’attività legata al diritto, al netto di distinzioni di censo, categoria e casta, sia sostanzialmente una ricerca costante, a volte minuziosa, a volte superficiale e a volte intuitiva, nel magma dei comportamenti umani. E che, come ogni ricerca che voglia avere una qualche velleità epistemologica, è destinata a evolvere certo, ma anche a recuperare nel proprio bagaglio anteatto la forza e la necessità per affermarsi tra le superiori discipline umane. E, allora, se così è, almeno per quanto attiene alla sfera del mio pensiero, io credo che sia indefettibile – alla vigilia di quella che si annuncia un anelato, e sia pur sincopato, ritorno alla realtà – uno sforzo di apostolato per chi opera nel mondo del diritto. Non per irretire nuovi discepoli, ma per tributare il giusto merito e la giusta riconoscenza alla scienza di cui ogni giorno ci occupiamo. Spesso, forse, senza la dovuta solennità, il dovuto rigore e, prima ancora, senza il dovuto timore.

La storia di questa sinistra pandemia ci ha insegnato tante cose, e l’effetto domino che si annuncia sarà articolato e prolungato. Su una cosa prima di tutto, però, ci ha ammonito: l’uomo è un essere nato per associarsi e, per una convivenza civile, il postulato giuridico è segmento vitale, non surrogabile e non differibile. E’ una verità banale, scontata e, forse, anche una sciocchezza. Accetto critiche, non mi offendo. Ma, siamo davvero certi che, sino allo scorso mese di febbraio, fossimo tutti, addetti e non, così compartecipi di questa normalissima verità? Io, non lo credo. E senza scomodare i massimi sistemi, o i grandi fatti umani che minano in radice la primazia del diritto e della legge. Troppi nostri comportamenti minimi e quotidiani sono stati, e mi auguro che il tempo del verbo rimanga declinato al passato, improntati a una consuetudine border line. A metà strada fra una morale che è il cuore di ogni norma e una morale estemporanea che siamo adusi a legiferare a nostro piacimento. Tra un precetto di doverosità sociale e l’insopprimibile necessità di aggirarne la portata in nome di un interesse, anche innocuo, confliggente.

Io, non lo credo. Anche in questo periodo in cui, se non incidentalmente, ho potuto assaporare la condensa della passione con cui, anche nelle condizioni più avverse, mi sforzo di svolgere il mio compito di avvocato di provincia. E, forse, senza indulgere in falsa retorica, di frontiera. La centralità del diritto quale passaggio obbligato del nostro vivere, anche da semplici viandanti del quotidiano, si è imposta in tutta la sua immanenza e la sua forza. Nel coacervo di D.P.C.M., delibere, protocolli che – in un clima di umana fragilità indotta scene di dolore senza precedenti – ha scandito e ammantato il nostro vissuto pandemico, ammettiamolo, abbiamo fatto fatica. A comprendere, a scardinare frasi, a decriptare comportamenti e divieti, permessi, parole, opere e omissioni. Siamo stati avvinti da una prudenza emergenziale o, al contrario, da una disinibita estasi da violazione in frode ai tanti che, pur senza esserne deputati, hanno deciso di sacrificarsi per la sanità collettiva. Il diritto è la tecnica della coesistenza umana, cioè la tecnica diretta a rendere possibile la coesistenza degli uomini. Non è una definizione attinta da un testo giuridico. E’ la sintesi di un pensiero altro. Quello di un filosofo, Nicola Abbagnano, cui sono legato dai tempi del liceo, e presso cui trovo riparo e conforto quando, davanti ai tanti crocevia della vita, non so darmi risposte, o solo coraggio.  Il diritto, per molti, non è una tecnica. Per i più distanti, è un enigma. Per i più prossimi, una spiegazione. A me, domani, quando questa triste didascalia di un tempo sospeso sarà il tormento di un ricordo, piacerebbe fosse la disaggregazione di un concetto errato. Il diritto e la legge non sono la palestra dove fanno a pugni gli addetti ai lavori per vedere chi ha ragione. Perché questo non è il diritto, e neppure, la legge, ma la loro degradazione e la loro demonizzazione. A me, domani, piacerebbe che questa brutta storia consegni a tutti la consapevolezza che il diritto è un po’ come la filosofia e un po’ come l’antropologia. Un viaggio bellissimo intorno all’uomo. Anche e soprattutto quando dell’uomo si comprende la sua vulnerabilità, e la caducità dei suoi convincimenti.
Redazione Calabria 7

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