Il calabrese Leopoldo Trieste, impareggiabile artista della storia del cinema italiano nell’ultimo secolo

Nessuno è profeta in patria e Trieste non poteva fare eccezione col suo taglio di intellettuale meridionale, fatalista e ironico, problematico e arguto, sognatore e indagatore delle vicende umane
leopoldo trieste

di Bruno Gemelli – C’era un personaggio calabrese che ha attraversato la storia del cinema italiano nell’ultimo secolo: il reggino Leopoldo Trieste, morto il 25 gennaio 2003 all’età di 86 anni dopo aver partecipato a ben 159 film nei ruoli di attore non protagonista. Un tempo si diceva: “caratterista”, ma è una categoria riduttiva per Leopoldo Trieste che invece è stato impareggiabile artista di sostegno alle impalcature interpretative dei racconti intessuti da grandi registi. Nessuno è profeta in patria e Trieste non poteva fare eccezione col suo taglio di intellettuale meridionale, fatalista e ironico, problematico e arguto, sognatore e indagatore delle vicende umane.

Intellettuali che si sottraggono alla piccola borghesia locale

Intellettuali che si sottraggono alla piccola borghesia locale

Anche il catanzarese Mimmo Rotella ha dovuto aspettare anni perché la sua regione lo riconoscesse come talento internazionale e la stessa cosa è accaduta a Tommaso Le Pera, di Sersale (Cz), che tutti scoprono come il più grande fotografo teatrale italiano, sicuramente tra i più noti ed apprezzati nel mondo per aver inventato un nuovo genere, quello appunto di fotografo di scena nel teatro, dal fine Novecento a quello contemporaneo vivendo egli, tuttora, questa esperienza con l’aiuto degli figli nel laboratorio di famiglia.

Allo stesso modo di Rotella e Le Pera, giovanissimi poveri in canna, ma con un grande desiderio di sfondare ed esprimersi nell’unica città italiana aperta a quel tempo alle culture cosmopolite, Roma, Trieste esplora la Capitale degli anni ’50 e ’60 con quella necessaria incoscienza che è propria degli spiriti liberi.

Il nostro fa parte di quella schiera di intellettuali che lasciano la provincia per sottrarsi ai limiti angusti della piccola borghesia locale per scoprire nuovi orizzonti culturali in grado di dare emozioni, stimoli, e di ricevere strumenti di conoscenza. Andrea Camilleri risale da Porto Empedocle per fare il regista “ripiegando” sulla sceneggiatura televisiva prima di diventare l’acclamato scrittore che è.

Ennio Flaiano viene da Pescara immortalandosi, come ricorda Giorgio Manganelli nell’introduzione del “Frasario Essenziale”, “Cambio di umore e di idee seguendo il corso del sole”. Federico Fellini lascia Rimini per guadagnare la via romana del cinema sperimentando empiricamente le prime “ideuzze” attraverso quegli schizzi che sarebbero diventati l’archetipo delle proprie maschere, dei personaggi che l’hanno reso famoso in tutto il mondo, creando il neologismo “felliniano”.

Gli altri calabresi

E, per tornare ai calabresi, Vincenzino Talarico e Aroldo Tieri lasciano la provincia cosentina per frequentare i teatri romani, Raf Vallone da Tropea a Torino come calciatore, cronista dell’Unità prima di diventare il grande attore che è stato, mentre Leonida Repaci si trasferisce da Palmi a Viareggio per il premio che porta il suo nome. Insomma, Roma è il crocevia di tanti talenti che arrivano alla stazione Termini squattrinati ma determinati a raggiungere risultati importanti, chi frequentando via Margutta, chi Cinecittà, chi l’Accademia d’arte drammatica, chi i teatri Quirino, Eliseo, Brancaccio, Argentina, chi la redazione del “Mondo” di Pannunzio, chi il caffè Greco in via Condotti, chi il bar Canova in Piazza del Popolo.

Una generazione alla ricerca della libertà

Insomma, una generazione uscita dall’incubo della dittatura fascista che cerca di respirare l’aria della libertà e della creatività con i sogni e i miti del tempo. Quelli che hanno avuto un’identica iniziazione sono stati Leopoldo Trieste ed Ennio Flaiano, una sorta di percorso speculare, perché entrambi contaminati dalla conoscenza iperbolica di Federico Fellini con il quale, anticipando la stessa “Dolce Vita”, metafora di una nuova era, preludio di una civiltà non più rurale ma industrializzata, inaugurano un forte sodalizio, il primo come attore e il secondo come sceneggiatore.

Un anno prima che morisse Leopoldo Trieste venne a Rende. Dopo la sua morte, la Calabria più pronta a ricordarlo è stata la comunità cauloniese che, in estate, organizzava un premio e una retrospettiva. Non è un caso che la cittadina jonica si sia resa promotrice dell’iniziativa: Caulonia è la città del rivoluzionario comunista in odore di ‘ndrina Pasquale Cavallaro, una figura adatta a ruolo cinematografico che Leopoldo Trieste, se non fosse stato prigioniero del cliché di “attore non protagonista”, avrebbe potuto benissimo interpretare. Ma c’era in circolazione, a quel tempo, un produttore in grado di capire fino in fondo i fatti accaduti nella cosiddetta ”Repubblica rossa di Caulonia”?

Una pagina drammatica del dopo guerra italiano. Fra l’altro l’attore girò un film a Caulonia, insieme a Stefano Satta Floris e altri, “Perdutamente tuo… mi firmo Macaluso Carmelo fu Giuseppe” del 1976; il set era in piazza Mese dove Cavallaro arringava il suo popolo. E sempre a Caulonia si tiene il festival della tarantella, una contaminazione tra etnomusiche del Mediterraneo. Fra l’altro il “Premio Leopoldo Trieste” festeggiò l’evento con un viaggio a Tokio che ha fatto felice il pubblico giapponese.

Le origini di Leopoldo Trieste

Leopoldo Trieste era nato a Reggio Calabria il 3 maggio 1917 da una famiglia di ebrei aschenaziti, il ceppo che ha dato l’attuale toponimo della centralissima via Aschenez (un mercante semita a cui si attribuisce anche l’invenzione della barca a remi dopo che si era accorto della posizione strategica della città della Fata Morgana). Suo padre Giuseppe era un ferroviere mentre la madre era una Barresi di Scilla. Nella città dello Stretto frequenta le scuole superiori, poi, portato dallo zio, si trasferisce a Roma dove si laurea in filosofia, abitando negli ultimi anni in un vecchio stabile umbertino dalle parti di piazza Fiume dove è morto. Fresco laureato abbraccia subito il classicismo, la filologia e il grecismo ipotecando una sicura carriera universitaria che però non ci sarà. Invece è il fuoco dell’arte che lo divora misurandosi, all’inizio, con la scrittura di testi, diventando così drammaturgo.

I suoi lavori

Il suo lavoro, “La frontiera”, viene rappresentato con una buona critica, nel luglio 1945, al Quirino di Roma. L’anno successivo, all’Excelsior di Milano, debutta con “Cronaca”, anticipando i temi del disagio giovanile della borghesia romana. Nel 1947 al Teatro delle Arti di Roma viene rappresentata “N.N”, storia di forte impatto morale che conclude una sorta di meta trilogia dell’Italia che usciva con le ossa rotta dalla guerra. E così che Leopoldo Trieste, non ancora attore, si immerge, senza saperlo, nel neorealismo. Dal teatro al cinema il passo è breve e inevitabile: inizia una prolifica attività di sceneggiatore cinematografico, collaborando a film importanti quali “Gioventù perduta” di Pietro Germi del 1948, “I fuorilegge” di Aldo Vergano e “Il cielo è rosso” di Claudio Gora entrambi del 1950.

La svolta

Dopo il 1950 avviene la svolta: inizia cioè la collaborazione con Federico Fellini, che si realizza con la contestuale vicinanza a Flaiano e Pinelli, i due soggettisti preferiti dal maestro. Diviene presto amico del riminese che lo fa debuttare come attore nel 1952 ne “Lo sceicco bianco” insieme ad un giovane e promettente Alberto Sordi. Leopoldo Trieste diventa così l’attore preferito di Federico Fellini che affettuosamente chiama Poldino.

L’anno successivo partecipa a “I vitelloni”, film da molti considerato il capolavoro del Maestro il quale riesce a fissare sullo schermo l’animo profondo della società italiana vista dalla particolare angolazione della ribollente e nello stesso tempo sonnolente provincia. In quel film Leopoldo è la quintessenza di sé medesimo, recitando il ruolo della propria esistenza, i sogni che svaniscono all’alba tra nuvole di fumo e pensieri rincorsi nelle notti insonni e nelle giornate tutte uguali in attesa della musa ispiratrice ma anche dell’occasione che non viene.

Oggi si direbbe: della telefonata che non arriva. Da quel punto in avanti inizia un fecondo rosario di interpretazioni di attore “non protagonista” che non è un’arida diminuzione ma, al contrario, è l’esaltazione di una personalità straordinaria che ha prestato la sua duttilità al cinema italiano rimanendo sé stesso attraverso un’infinita gamma di maschere, situazioni, tic, introspezioni, simbologie costruite sempre sul filo di una discreta presenza, molto forte nei significati, tragica e comica come richiede un’arte senza risparmio.

Non fece in tempo a scrivere la sua biografia, ma forse non la volle scrivere, lui solitario, indolente, picaresco, lunatico, omerico. Ebreo-arabo forse, ma non levantino.

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