Rinascita Scott, le motivazioni della sentenza d’appello: la ‘ndrangheta vibonese è unitaria

I giudici di secondo grado riconoscono "l'esistenza di un sistema unitario e di regole comuni" e spiegano l'egemonia della cosca Mancuso
rinascita scott gratteri

La ‘ndrangheta vibonese è unitaria. E’ questo il passaggio principale che si legge tra le oltre 1500 pagine che costituiscono le motivazioni della sentenza emessa dalla Corte d’appello nell’ambito del processo scaturito dalla maxi operazione “Rinascita Scott” che lo scorso 30 ottobre ha portato alla conferma di 67 condanne e alla sostanziale tenuta dell’impianto accusatorio costruito dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro all’epoca guidata da Nicola Gratteri.

Si tratta del filone celebrato con rito abbreviato giunto al secondo grado di giudizio. Anche il verdetto di appello ha riconosciuto l’esistenza dell’unitarietà della ‘ndrangheta suffragata da diverse sentenze e anche dalle dichiarazioni dei numerosi collaboratori di giustizia che nel corso di questi anni sono riusciti a bucare il muro di omertà sul quale regnavano i clan vibonesi. La loro attendibilità è stata ulteriormente certificata dalla Corte d’Appello di Catanzaro presieduta dal giudice Caterina Capitò (a latere Antonio Giglio e Carlo Fontanazza) per la quale “l’esistenza di un sistema unitario associativo e di regole comuni e gerarchie non è in contrasto con le possibili guerre interne alle singole articolazioni, come non risulta in contrasto con l’unitarietà della ‘ndrangheta che alcuni gruppi criminali sempre qualificabili ai sensi dell’art. 416 bis c.p., presenti in alcuni territori, fatichino ad avere maggiore riconoscimento formale. Inoltre proprio il riconoscimento formale di un gruppo organizzato, da parte delle articolazioni deputate a ciò, non è indispensabile per l’esistenza del delitto di cui all’art. 416 bis c.p., operando i due piani (giuridico e, per così dire, sociologico) su binari indipendenti”.

La sentenza della Corte d’appello

Complessivamente sono 1598 le pagine di motivazioni depositate nelle scorse ore. Il verdetto d’appello ha portato alla condanna di 67 imputati e all’assoluzione di altri 7 in riforma di quella che era stata la sentenza emessa in primo grado dal gup distrettuale Claudio Paris. Le pene più pesanti sono stati inflitte nei confronti di Pasquale Gallone, il braccio destro del boss Luigi Mancuso (condannato a 30 anni di reclusione in primo grado nel processo Petrolmafie), e Domenico Macrì, l’aspirante boss di Vibo, ritenuto il capo dell’ala militare della cosca Pardea-Ranisi, al 41 bis con 19 anni e 10 mesi da scontare. Tra le assoluzioni “eccellenti” quelle di Micele Fiorillo, detto “Zarrillo” di Piscopio e dell’impiegata del Tribunale di Vibo Carmela Cariello che in primo grado erano stati condannati rispettivamente a 5 e a 4 anni e 6 mesi.

I Mancuso di Limbadi e il ruolo apicale di zio Luigi

Grande spazio viene dedicato all’esistenza della principale cosca presente a Vibo e provincia, quella dei Mancuso, accertata in via definitiva con il processo Dinasty. Le motivazioni del filone abbreviato di Rinascita Scott riconoscono il ruolo apicale di Luigi Mancuso. La sua figura era già emersa nei processi “Tirreno” e “Mafia delle tre Province”, in cui sono stati esaminati i rapporti tra la ’ndrangheta reggina e quella del vibonese. In “Tirreno” Mancuso e il nipote Peppe ’mbrogghja figuravano promotori e dirigenti della consorteria; nella sentenza “Dinasty” si dà atto di come il clan Mancuso “si regga su legami familiari, che rappresentano l’elemento di coesione principale, sia all’interno della cosca (e nonostante gli accertati contrasti tra frange della stessa famiglia), sia all’esterno della stessa. La forza del sodalizio e il suo ruolo egemonico nella ‘ndrangheta vibonese emergono anche dalla sentenza emessa nel processo “Rima”, che ha accertato per la prima volta l’esistenza della cosca dei Fiarè-Razionale di San Gregorio d’Ippona, stretta alleata dei Mancuso”. Inoltre, anche il collaboratore storico Michele Iannello annoverava già nel 2002 Luigi Mancuso tra i tre perni principali dell’associazione (con Antonio e Peppe Mancuso). Andando all’attualità, viene evidenziato dalla Corte come, rispetto a quanto “pacificamente emerge dai provvedimenti definitivi di accertamento dell’esistenza della cosca Mancuso e della sua conclamata supremazia sulle altre cosche del territorio, poco rileva l’esattezza o meno dell’analisi in ordine alla sua collocazione all’interno della cosiddetta ‘ndrangheta unitaria, e in ordine alla portata stessa di tale nozione”. Inoltre, sull’attuale operatività della cosca, “in perfetta continuità con il segmento già accertato nel processo “Dinasty”, e sul ruolo di Luigi Mancuso, “valgono le considerazioni espresse nella sentenza impugnata e valgono soprattutto le vastissime acquisizioni probatorie relative ai reati-fine che saranno di seguito esaminati”.

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