di Osvaldo Passafaro – L’ego che si dibatte tra il titolo e l’epilogo, per fatti naturalistici, refluisce nell’epitaffio inciso sui consunti recessi marmorei di una vita così inautentica da fornire, sia pure per vie tralatizie, la parvenza del vero: che opera d’arte. Così, in limine alla moderazione, l’uomo ordinario, con una magnifica tensione all’irripetibile, diviene precipitato di una velleità liquida: anelito di straordinario che passa per l’esagerazione – tanto è il suo disgusto per il giusto mezzo. Alla fine, tuttavia, più che un “oltreuomo”, di lui ci rimarrà l’uomo senza l’oltre. Oltre quale misura metafisica dell’impersonale, oltre come altrove: è l’indefinito, quanto agli effetti, di un’umanità veicolata per aria; definibile nella causa, per un’effervescenza che svanisce, un ardore sbollito, un desiderio senza affanno. Sicché, il volo diviene folle, ricalcando la sorte di Icaro: fattore comune, il rigetto delle “radici”.
La convinzione di poter possedere l’assoluto, nell’equivoco che l’infinito sia anche illimitato, invero, nasce dai limiti del linguaggio e postula la necessità di un antidoto: il verso che travalica i confini del tempo e dello spazio; è una ritualità apotropaica che trova ancoraggio in una aspettativa, un’attesa che si fa illogico prodomo a una maggior sorpresa. E, nelle correnti inesauribili della finitudine, sembra diluirsi quel terrore di scorgere la decadenza della persona oltre l’involucro. Non è gentile la decadenza, D’Annunzio lo subodorò e mentiva a se stesso nell’identico momento in cui ne aveva sentore: l’esteta, il culto della bellezza e la sua menzogna fatta su misura. Della sua fragilità più grande, l’impotenza di opporsi a una borghesia ascendente era la qualità, l’isolamento, la quantità. Variabili implicite a una fase crepuscolare presaga di esilio e nostalgia. Donde l’ambiguo compiacimento per quelle “radici” gravide di magia mista a superstizione, talvolta anche sanguinarie: è un esercizio di realtà che conduce al ritrovarsi in quella dimensione ctonia tipica di chi si eleva al disopra del male in virtù di un know-how endemico.
L’eccezionalità di quei famosi “pochi” diviene allora frutto di un indugio psicologico eminentemente analitico che, a fronte di una declassazione endogena, attraverso la letteratura, vagheggia un ristoro dell’estetismo non poco generico nei suoi fantasiosi estremi, frutto di un’autoreferenzialità più autolesionistica che riabilitativa dell’opera di intellezione, giacché tradita in partenza: valori altri finiscono per tradurre lo sforzo dell’interprete (si legga, “l’esteta”) nel sacrificio dovuto di un suicidio simbolico. “Su la favola bella/che ieri/t’illuse, che oggi m’illude”(G. D’Annunzio, “La pioggia nel pineto” – “Alcyone”). Posposti i propositi vitalistici, pertanto, si spiana la strada alla putredine e al senso di morte … quale degno sipario a un’estate, per così dire, “incendiaria”, con l’orizzontalità di “Graecalis 2021” a scandirla dal chiostro del complesso monumentale San Giovanni di Catanzaro, nelle persone di Gigi La Rosa, Aldo Conforto, Salvatore Venuto e Mariarita Albanese, il “Teatro di Calabria – Aroldo Tieri” ci ha dischiuso una finestra sulla decadenza.
Prospiciente al vitalismo panico dell’io poetico che, nella calura estiva, si fonde con le presenze naturali, la veduta concupiscente di essa finestra soggiaceva alla visione eterodossa di un D’Annunzio interprete della fine del mondo; “superuomo” mancato per via di una perplessità malata, che, in una disperata corsa avverso la monotonia, nell’ora del massimo sforzo concettivo possibile, rovinando in quel lento scivolare lungo le pieghe di una “durata pugnalata”, incespica nello scacco di una lacrima non calcolata: la mia, la tua, la nostra in ogni ritrovarsi esposto a quello specchio sociale di una letteratura indennitaria – tanta è l’immanenza del suo fallimento presago di sventure. Scacco di scoperta e, accidentalmente, matto – complice la sincerità delle nostre pochezze messe a nudo. “Tutto fu ambito” e “tutto fu tentato”? Ove altri abdicarono, “quel che non fu fatto” il “Teatro di Calabria” lo sognò e, tanto fu l’ardore (la mente corre alla pandemia), che l’atto eguagliò il sogno e non viceversa. La bella stagione è conclusa, mettiamo in pratica.