di Gabriella Passariello- Un’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti con base operativa a Lamezia Terme e luoghi di approvvigionamento nel Vibonese e nel Reggino, è stata stroncata dagli uomini della Squadra mobile di Catanzaro, diretti dal dirigente Fabio Catalano, di concerto con i colleghi del commissariato di Lamezia, che hanno eseguito un’ordinanza di misura cautelare vergata dal gip Barbara Saccà su richiesta del sostituto procuratore Chiara Bonfadini nei confronti di 23 persone (LEGGI). Un blitz, che vede coinvolti anche 77 indagati a piede libero (LEGGI), in un’indagine scattata in seguito all’arresto, il 5 settembre del 2017, di Mario Maiolo e Luciano La Rosa, colti in flagranza di reato per detenzione ai fini di spaccio di 71 grammi di cocaina purissima. Arresti che hanno consentito di avviare una serie di intercettazioni, svelando grazie alle conversazioni e alle memorie dei cellulari dei due pusher, una sfilza di persone coinvolte nel business delle sostanze stupefacenti.
“La droga parlata” e la certezza di non essere spiati
“La droga parlata” e la certezza di non essere spiati
Dalle captazioni, di quella che è stata definita da inquirenti e investigatori, “la droga parlata” è stato possibile ricostruire il traffico illecito di un sodalizio gestito da Antonio Pagliuso e Domenico Gian Luigi Bonali, i cui “capi e partecipi”, come Maurizio Mazza erano erroneamente convinti di non avere microspie alle calcagna. Conversazioni intercettate, in cui espressamente si parla, di “grammi”, di “chili”, di “roba”, di hashish, marijuana, cocaina, eroina ed altre droghe, molte volte smistate all’interno di una magazzino in via Torre a Lamezia, roccaforte per nascondere e raffinare la droga. In un dialogo intercettato dalla Polizia e durato oltre un’ora, Domenico Gian Luigi Bonali e Marco Antonio Cerra, sono intenti a confezionare “qualcosa”, commentando che le dimensioni delle dosi da ricavare devono essere piccole e non “troppo grandi”. E che si trattasse di cocaina lo si evincerebbe dalla prosecuzione della conversazione, nel corso della quale, Cerra chiede a Bonali “Minchia, si sente, no?” ottenendo come risposta “Eh … una botta”. I due, nel preparare le dosi, fanno riferimento all’aggiunta di qualcosa: “Ci metti la cosa là”. Un’affermazione questa, secondo gli inquirenti, che si coniuga con le caratteristiche della preparazione della cocaina che viene solitamente “tagliata” con altri medicinali per implementare il numero delle dosi ricavabili. Il 9 febbraio 2018, sempre nello stesso magazzino, luogo di incontro del sodalizio, vengono captate una serie di conversazioni telefoniche ed ambientali dalle quali emerge come Antonio Pagliuso sollecitasse Pasquale Gigliotti ad incontrarsi per definire una “vicenda”, nella quale quest’ultimo avrebbe ceduto due dosi di droga al prezzo di 90 euro. Il dialogo captato prosegue consentendo di risalire alla cessione di 2,5 grammi di cocaina fatta da Gigliotti a Pagliuso suo abituale fornitore, al prezzo di 150 euro. Ma sono tante le cessioni di droga documentate nel provvedimento del gip con relativo prezzo: da un chilo di marijuana per un profitto di 1.800 euro a 39 grammi di cocaina per un guadagno di 2.730 euro a 100 grammi di cocaina venduta ricavandone 9mila euro. Ma le carte non certificano solo fiumi di droga.
Kalashnikov e bombe da utilizzare in caso di necessità
Dalle intercettazioni emerge come alcuni indagati avessero a disposizione armi da fuoco, da guerra e relative munizioni. L’11 aprile del 2018, Antonio Pagliuso ed Antonio Cerra, mentre si trovavano a bordo di una Fiat Panda, discutono di alcune armi e del fatto che Pagliuso ne aveva visto “una nuova”. Più o meno come la nostra è…, non mi ricordo il modello che ce l’ho segnato!” E Cerra chiedeva : “una trentaquattro?”. Ricevendo come risposta : “una sei e trentacinque”. Dopo circa un mese, sempre in una conversazione spiata in auto, Antonio Cerra, si vanta della sua leadership nella vendita delle armi: “questi qua li paghiamo una cazzata hai capito? Ti sto parlando chiaro, il miglior prezzo che ho io non ce l’ha nessuno in tutta la zona, ma no a chiacchiere per davvero” e discute dell’acquisto di un revolver calibro 38 con canna da 3 pollici, mentre Antonio Pagliuso asserisce di essere stato in possesso di un revolver Smith & Wesson calibro 38. E l’11 luglio 2018, quest’ultimo chiede a Domenico Gian Luigi Bonali di andargli a nascondere la pistola in casa, temendo di essere scoperto, essendoci numerosi controlli da parte delle Forze dell’Ordine. Il giorno successivo, consapevoli dei rischi che corrono in caso di controlli di polizia, i sodali, in base al provvedimento, cercano di individuare il modo migliore per evitare che le armi possedute venissero scoperte. E’ lo stesso Antonio Pagliuso, a descrivere il proprio arsenale ai suoi accoliti “a me non mi manca niente”, un arsenale composto da numerose armi, anche di grosso calibro, come kalashnikov, fucili a pompa e fucili calibro 20, oltre che un ordigno esplosivo, del peso di 64 chilogrammi, che non avrebbe esitato ad utilizzare in caso di necessità.