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Luigi Mancuso e l’evoluzione della ‘ndrangheta vibonese: stop al terrore dei nipoti sanguinari in nome degli affari

Nelle motivazioni della sentenza di "Rinascita Scott", la strategia della pacificazione imposta dal boss per ottenere il consenso della popolazione e l’assoggettamento spontaneo degli imprenditori

Sopra di lui nessuno. Almeno a Vibo e provincia dove, allo stato attuale, tutte le cosche insediate nel territorio fanno capo a un’unica associazione egemone, quella dei Mancuso. A comandarla l’indiscusso capo dei capi, il super boss Luigi Mancuso, detto il “Supremo”. Nelle oltre tremila pagine, con le quali il Tribunale collegiale di Vibo motiva la sentenza di primo grado del filone ordinario del maxiprocesso “Rinascita Scott”, un capitolo fondamentale è riservato proprio a lui, condannato a 30 anni di reclusione in un altro procedimento penale parallelo, “Petrolmafie”, il sequel dell’inchiesta genetica della Dda di Catanzaro con la quale sono stati documentati gli interessi dei clan vibonesi nel business degli idrocarburi.

L’ambizioso progetto di Luigi Mancuso

L’ambizioso progetto di Luigi Mancuso

“Luigi Mancuso coltivava – scrivono i giudici – l’ambizioso progetto di portare la cosca Mancuso a dei livelli superiori, ad investire nell’economia lecita e ad estendere i propri tentacoli e il proprio denaro ben oltre il territorio dove storicamente la stessa era radicata”. Il primo passo per arrivare a questo obiettivo sarebbe stato quello di ristabilire l’unitarietà della ‘ndrangheta nella provincia di Vibo, dilaniata da sanguinose faide tra fazioni opposte e spaccature interne anche alla stessa famiglia di Limbadi. Uscito dal carcere dopo diciannove anni, Luigi Mancuso ha dunque inaugurato dal 2012 in poi una nuova era. Si è passati dalla strategia del terrore a quella della pacificazione con una nuova politica criminale non più basata sulla violenza e sullo stragismo ma sul consenso della popolazione e sull’assoggettamento spontaneo degli imprenditori. “La paziente e raffinata opera di Luigi Mancuso di riappacificazione all’interno del territorio vibonese – rimarca il Tribunale – non è rimasta circoscritta alla sua cosca di appartenenza, ma è stata rivolta anche  agli altri gruppi criminali, avendo il Mancuso ricompattato e rinsaldato anche i rapporti con le altre consorterie, intessendo relazioni con le più importanti cosche del territorio, quella dei Fiarè – Razionale di San Gregorio d’Ippona, dei Lo Bianco – Barba di Vibo Valentia e quella di Accorinti di Zungri, nonché cercando di superare rivalità ataviche che avevano portato a tensioni e faide in passato (ad esempio con la famiglia Bonavota di Sant’Onofrio e con la cosca dei Piscopìsanì)”.

Stop alle faide in nome degli affari

Gli esiti dell’attività di indagine Rinascita Scott “mostrano con chiarezza quale fosse la nuova ‘strategia’ voluta da Luigi Mancuso, ovvero una sorta di ‘pacificazione’, in chiara controtendenza con la linea che era stata seguita dal nipote Pantaleone, alias Scarpuni, che invece aveva fomentato le faide dei Patania contro i Piscopisani ed era di indole più violenta e sanguinaria”. La nuova linea imposta da Luigi Mancuso, emersa nell’istruttoria dibattimentale attraverso le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e l’impressionante mole di materiale raccolto dai carabinieri del Ros “privilegia chiaramente – osserva il Tribunale di Vibo – la ricerca di ‘accordi’ e dì equa spartizione degli interessi, piuttosto che le intimidazioni violente o le prevaricazioni nella conduzione degli affari illeciti o del controllo del territorio”. E’ la conferma del “carisma criminale” di Luigi Mancuso che non riveste più soltanto il ruolo di ‘capo’ della propria ‘ndrina ma anche quello di elemento di vertice dell’intera struttura ‘ndranghetista vibonese in grado di potersi interfacciare con i più importanti capimafia reggini. “La politica criminale imposta da Luigi Mancuso, volta alla concordia e alla condivisione, da parte di tutti i Mancuso – e in particolare del nipote Giuseppe Mancuso detto Mbrogghia, con il quale in passato vi erano stati dei dissapori – dei progetti criminali dettati dal boss, conduceva all’assoggettamento spontaneo della popolazione, che si recava di propria iniziativa a pagare le estorsioni al boss”, evidenzia il collegio giudicante. Lo testimonia Andrea Mantella la cui credibilità – secondo i giudici – è stata ripetutamente verificata ma soprattutto i riscontri alle dichiarazioni dei vari pentiti.

Le conversazioni tra Giovanni Giamborino e Giancarlo Pittelli

A tal proposito viene riportata una conversazione intercettata nel settembre del 2016 tra Giovanni Giamborino e l’avvocato Giancarlo Pittelli che, dopo aver pranzato con Luigi Mancuso, commentano “quanto fosse piacevole quest’ultimo, personalità completamente diversa dal nipote Mancuso Giuseppe classe ’49, noto per essere più sanguinario e violento”. Giamborino, in particolare, rimarcava il ruolo apicale in seno all’organizzazione assunto da Luigi quando costui era uscito dal carcere, ribadendo che aveva allontanato dal potere tutti i fratelli e i nipoti, e che senza di lui “non si muove una foglia”, proprio per questa ragione “Luigi meritava di restare in libertà, perché l’unico in grado di mantenere la pace e l’ordine”. Pittelli proseguiva dicendo: “appunto, con lui fuori non succede niente”.

Il garante della ‘ndrangheta unitaria vibonese

Aggiungono e sottolineano i giudici chiudendo il capitolo dedicato al capo dei capi della ‘ndrangheta vibonese: “Il ruolo apicale rivestito dal Mancuso non è mai stato in discussione, neppure quando lo stesso era sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale o durante il periodo della sua irreperibilità, durante il quale Mancuso ha continuato ad incontrare sia i suoi sodali che gli appartenenti alle altre compagini criminali del territorio calabrese, curando in prima persona gli affari del gruppo. Nello stesso periodo, infatti, oltre a portare avanti la politica di riappacificazione nei termini sopra specificati, il Mancuso manteneva i rapporti con le principali famiglie di ‘ndrangheta del reggino quali i Piromalli di Gioia Tauro, i Coluccio di Siderno, gli Alvaro di Sinopoli, i De Stefano di Reggio Calabria”. Incontri documentati dagli inquirenti avvenuti tra il boss o i suoi più stretti fiancheggiatori e i principali esponenti delle cosche reggine che certificano come Luigi Mancuso rivestisse il ruolo di “garante della struttura ‘unitaria’ dell’organizzazione criminale operante nel territorio di Vibo Valentia”.

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