Rinascita Scott, Mancuso e la fake news di un avvocato: “Volevano incolparmi dell’arresto di mio padre”

Il collaboratore di giustizia spiega i cinque motivi per i quali il clan di Limbadi teme il suo pentimento: "Sperano ancora che io cambi idea"

di Mimmo Famularo – “Nella mia famiglia a oggi non abbiamo pentiti”. Così il boss defunto Pantaleone Mancuso, alias “Vetrinetta”, qualche anno fa si vantava con un avvocato in una conversazione intercettata dai Ros e finita agli atti del processo “Purgatorio”. Quel muro di omertà è stato infranto dal nipote Emanuele che dal 2018 collabora con la giustizia e che oggi ha debuttato in “Rinascita Scott” per la prima delle cinque udienze in calendario nell’aula bunker di Lamezia Terme. I verbali (ancora pieni di omissis) raccontano tante cose e tra queste pure i motivi interiori ed esteriori che hanno indotto Emanuele Mancuso a cambiare vita. Lo ha fatto soprattutto per la figlia nata subito dopo la sua collaborazione nella speranza di farla crescere in un ambiente diverso, lontano dalle logiche di natura mafiosa.

Emanuele Mancuso e quel sospetto sullo zio Luigi

Emanuele Mancuso e quel sospetto sullo zio Luigi

Il suo pentimento ha fatto scalpore e rappresenta un’onta per il più potente casato di ‘ndrangheta presente in provincia di Vibo Valentia. Emanuele Mancuso ha persino raccontato che lo zio Luigi, il “carismatico” boss che lui stesso pone al vertice dell’organizzazione, avrebbe messo una taglia da un milione di euro per avere la sua testa. “All’inizio – svela agli inquirenti – la scelta di collaborare era dovuta al fatto che ritenevo Luigi Mancuso responsabile di aver venduto me e mio padre alle forze dell’ordine. Nel mio caso per avermi utilizzato mandandomi da Leone Soriano pur sapendo che lui era intercettato; nel caso di mio padre per aver concordato con lui un appuntamento a Joppolo, in un terreno nei pressi dell’abitazione del dentista Redi al quale lo stesso Luigi Mancuso non si è presentato”. Proprio in quell’occasione il padre di Emanuele, Pantaleone Mancuso, alias l’Ingegnere, venne arrestato dopo un periodo di irreperibilità: “Evidentemente – sospetta il pentito riferendosi allo zio Luigi – sapeva ciò che sarebbe avvenuto”. Un avvenimento seguito da una falsa notizia raccontata dallo stesso collaboratore di giustizia: “Dopo l’arresto di mio padre venne divulgata la falsa notizia che l’arresto era avvenuto per colpa mia perché mi ero sottratto all’esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare che mi vedeva coinvolto in reati in materia di stupefacenti con dei soggetti delle Preserre vibonesi e che in quel periodo le forze dell’ordine stavano cercando me anche nel territorio di Joppolo”. In realtà si trattava di una voce falsa perché Emanuele Mancuso non si era rifugiato in quella zona e non era lui colui che le forze dell’ordine stavano cercando. Ma chi ha divulgato la fake news? Per il pentito sarebbero stati lo stesso Luigi Mancuso e il suo avvocato dell’epoca appartenente al foro di Vibo: “Volevano far ricadere su di me le responsabilità dell’arresto di mio padre”.

I cinque motivi che fanno tremare i Mancuso

Come emerso in altre indagini, Emanuele Mancuso è stato soggetto a pressioni e minacce per fare dietrofront e ritrattare tutto ciò che aveva riferito ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. La cosca teme innanzitutto l’aspetto sociale della sua collaborazione e qui ritorna in mente la frase dello zio Pantaleone Mancuso “Vetrinetta” sull’orgoglio di non avere pentiti in famiglia. Il secondo motivo è legato alla frequentazione di Emanuele con il cosiddetto gruppo di fuoco di Luigi Mancuso nel quale il pentito colloca “i fratelli Piccolo (Antonio definito il grande, Domenico, Davide e Salvatore), il padre Roberto e ancora tali “Yoyo”, “Pajjhuni”, Leo di Comerconi, Giuseppe Rizzo e i due fratelli “Fiffiettu” di Comerconi. Nel verbale illustrativo precisa che i “Fiffiettu sono i fratelli Costantino, già implicati nell’operazione Black Money” mentre “per ‘Yoyo’ intende un certo Pronestì o Prenestì, coinvolto nell’operazione Decollo nella quale si rese latitante”. Il terzo motivo per il quale alla sua famiglia fa paura la collaborazione riguarda la vicenda che lo ha visto coinvolto con Leone Soriano e per il quale è stato poi arrestato. “Sono stato usato e manipolato proprio dalla mia stessa famiglia per pagare una somma di denaro a titolo di ristoro e fare da ‘pacere’ tra Leone Soriano e Castagna (imprenditore di Vibo ndr)”. Ovviamente Emanuele Mancuso fa paura pure per i tantissimi episodi passati e attuali che potrebbe raccontare e che coinvolgerebbero non solo la cosca di Limbadi ma anche le altre famiglie di ‘ndrangheta del Reggino e del Vibonese. Il quinto motivo è legato a una vita che lo allontana dal territorio di origine e crea una spaccatura definitiva tra lui e la sua famiglia. “Lo prova il fatto – sottolinea – che fino ad oggi non mi hanno mai rinnegato, né sui giornali, né in alcun altro modo, come generalmente avviene in questi casi; ciò perché sperano ancora che io cambi idea”.

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