È andato in onda ieri sera, a partire dalle 21.45, su Rai3, Todo Modo, il nuovo programma di inchieste condotto da Emilia Brandi. La prima puntata è stata incentrata su Calabria, ‘ndrangheta e femminicidio con Nicola Gratteri, magistrato sotto scorta, noto per la sua strenua battaglia contro la criminalità organizzata. Il focus ha riguardato tre storie di stretta attualità legate alla morsa criminale dei clan per il possesso e il controllo del territorio, a cominciare da quella di Maria Chindamo, imprenditrice di 42 anni uccisa nel 2016.
Nel corso della puntata, è stata mandata in onda l’intervista esclusiva realizzata da Alessandro Gaeta, del Tg1, a Emanuele Mancuso, figlio di Pantaleone, detto “L’Ingegnere” uno dei massimi esponenti del clan di ‘ndrangheta di Limbadi. Proprio Emanuele ha deciso di infrangere il codice mafioso del silenzio, scegliendo di collaborare con la giustizia e minando, di fatto, il prestigio criminale di una delle più temute cosche di ‘ndrangheta.
Nel corso della puntata, è stata mandata in onda l’intervista esclusiva realizzata da Alessandro Gaeta, del Tg1, a Emanuele Mancuso, figlio di Pantaleone, detto “L’Ingegnere” uno dei massimi esponenti del clan di ‘ndrangheta di Limbadi. Proprio Emanuele ha deciso di infrangere il codice mafioso del silenzio, scegliendo di collaborare con la giustizia e minando, di fatto, il prestigio criminale di una delle più temute cosche di ‘ndrangheta.
Emanuele Mancuso e i riti di affiliazione
“I riti di affiliazione alla ‘ndrangheta – ha spiegato il collaboratore di giustizia – sono necessari ma non nelle famiglie come la mia. Io non ho fatto nessun rito perché sono nato e cresciuto in una delle più prestigiose famiglie di ‘ndrangheta. Già mi sentivo parte. Di solito questo rito di affiliazione si utilizza per dare una motivazione a quei giovani che erano dei criminali ‘semplici’, al di fuori di questo contesto. Quindi per farli crescere all’interno di queste strutture, venivano affiliati con dei riti. Per le donne era diverso: non facevano riti, ma erano operative h24. Puntano a crescere i figli con determinati valori, quelli ‘ndranghetisti”.
Il divorzio nella famiglia di ‘ndrangheta
E se il matrimonio va in crisi? “Non possono divorziare”, ha affermato Mancuso, il quale spiega che questo è dovuto a due motivi: “Uno, perché se la donna decide di rifarsi una vita, fa uno spregio ai figli, al marito e alla famiglia intera. Se, invece, si tratta di un piccolo affiliato, dipende da quanto era coinvolto nella vita criminale. Ricordo ancora oggi i messaggi che mi dava mia madre: uno era ‘meglio andare in carcere che sentire le campane suonare’; e un altro era ‘se ti fai i fatti tuoi, non muori’. Perché chi parla muore. Sono dei valori che ti vengono inculcati nella testa fin da bambino”.
Il ruolo di Luigi Mancuso
Elemento di spicco del clan Mancuso è Luigi, alias ‘Il Supremo’ o ‘Il Ballerino’. “Passi contati, parole contate. Chiunque si innamorava di lui. Io, ad esempio, ero disposto a tutto per lui. A livello criminale, è il massimo. Non era violento. Lui portava due persone, che magari il giorno prima si erano sparate, a fare pace. La sua parola andava oltre il loro odio. Una politica, la sua, di pacificazione e silenzio. Facevano solo affari e soldi. Tanti, quando hanno saputo dell’arrivo di Gratteri a Catanzaro, si sono muniti di escavatori e nascondevano sotto terra armi, soldi e droga”.
I modi per convincere Emanuele Mancuso a non collaborare
Sia la figlia sia la compagna di Emanuele Mancuso sarebbero state ‘usate’ dal clan per convincerlo a fargli cambiare idea e a non ‘pentirsi’. “Mi hanno proposto tutto quello che volevo pur di uscire fuori dal programma di protezione. Una volta presa la decisione, la macchia restava. Presto, però, sono passati ai fatti: hanno iniziato a non portare la bambina in carcere, a metterla contro di me in tutti i modi possibili e immaginabili, a comprarsi le relazioni dei servizi sociali. Ne ho viste di tutti i colori. Dopo le mie dichiarazioni nel processo sulla porte di Matteo Vinci, mia zia Rosaria Mancuso prese la parola e inizio a urlare, non rendendosi conto però che le sue stesse dichiarazioni erano una sorta di ammissione dell’esistenza di un clan”.
La lotta alla ‘ndrangheta
Sulla lotta alla ‘ndrangheta, il collaboratore di giustizia non ha dubbi: “Serve una rivoluzione culturale, sociale e uno Stato forte. Lo Stato non vuole vincere la battaglia. La ‘ndrangheta è entrata a livello istituzionale attraverso la massoneria e i colletti bianchi. Una parte della mia famiglia, ad esempio, è ‘istituzionalizzata’. Hanno fatto un salto di qualità. I valori rimangono quelli ‘ndranghetistici. Si finisce di essere ‘ndranghetisti in due modi: o collaborando o con la morte”.