di Mimmo Famularo – Restano ai domiciliari i fratelli Francescantonio ed Emanuele Stillitani. Il Tribunale del Riesame di Catanzaro ha infatti respinto il ricorso presentato dagli avvocati Vincenzo Gennaro, Vincenzo Ioppoli e Giosuè Bruno Naso contro l’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip distrettuale di Catanzaro nell’ambito dell’inchiesta denominata “Imponimento” contro il clan Anello di Filadelfia. I due imprenditori di Pizzo erano stati arrestati e portati in carcere lo scorso 21 luglio nel giorno in cui scattò il blitz, condotto dalla Guardia di Finanza sotto il coordinamento della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro guidata dal procuratore Nicola Gratteri, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, tentata estorsione e danneggiamento. Poco prima di Ferragosto una nuova ordinanza, emessa dal gip distrettuale, aveva disposto la scarcerazione e la misura cautelare ai domiciliari. I difensori degli Stillitani avevano quindi proposto istanza al Tribunale del Riesame di Catanzaro per la revoca della detenzione domiciliare ma, evidentemente, per i giudici le esigenze cautelari non sono venute meno e il ricorso è stato rigettato.
Tutte le accuse agli Stillitani
Tutte le accuse agli Stillitani
Già sindaco di Pizzo e assessore regionale prima ai Trasporti e poi al Lavoro, Francescantonio Stillitani viene chiamato in causa anche per i suoi trascorsi politici. Secondo la Dda di Catanzaro sarebbe il “politico di riferimento del sodalizio” che gli avrebbe fornito appoggio elettorale per la scalata a primo cittadino di Pizzo e, successivamente, per quella al Consiglio regionale della Calabria. Stillitani avrebbe consentito alle consorterie criminali che controllavano il territorio al confine tra Pizzo e Lamezia Terme “di infiltrarsi e di aver voce in capitolo negli affari relativi allo specifico settore della gestione di strutture turistiche, anche mediando con altri imprenditori in relazione alle pretese estorsive della cosca e dei suoi appartenenti, concorrendo nelle condotte estorsive, favorendo l’affidamento di opere, forniture e servizi ad imprese contigue alla cosca ovvero direttamente avvalendosene, garantendo l’assunzione di sodali o di soggetti comunque indicati dall’organizzazione”. Il fratello Emanuele viene chiamato in causa nella sua veste di imprenditore turistico. Entrambi avrebbero, quindi, “contribuito, pur senza farne formalmente parte, al rafforzamento, alla conservazione ed alla realizzazione degli scopi dell’associazione mafiosa denominata ‘ndrangheta, operante sul territorio della provincia di Vibo Valentia e su altre zone del territorio calabrese, nazionale ed estero (Svizzera), ed in particolare della locale di Filadelfia e della cosca Anello Fruci”.