Il “Bonafede” di Bonavota e il mistero del pizzino trovato nel covo genovese del super latitante

Per lui si prospetta il carcere duro e la Dda di Catanzaro già nelle prossime ore farà richiesta per l’applicazione del 41 bis

Ogni latitante ha un alias. Quello di Matteo Messina Denaro era Andrea Bonafede. Alla stregua del boss di Cosa Nostra catturato a Palermo lo scorso gennaio, anche Pasquale Bonavota girava per le vie di Genova con un documento. Su una delle carte di identità ritrovate nel covo del quartiere San Teodoro dai carabinieri c’era appiccicata la sua foto ma il nome e il cognome riportati erano i seguenti: “Francesco Lopreiato”. Il latitante avrebbe utilizzato queste generalità per meglio muoversi e non farsi scoprire. Gli investigatori vogliono ora capire se tutto ciò è avvenuto all’insaputa della persona trasformata, sua malgrado, in un alias e che, all’improvviso, è fuoruscita dall’anonimato per finire sotto le luci della cronaca accese dopo la cattura dell’ancora presunto boss di Sant’Onofrio.

Caccia ai complici del boss

Caccia ai complici del boss

L’obiettivo dichiarato dagli inquirenti è quello di ricostruire tutta la rete dei fiancheggiatori. Da Sant’Onofrio fino a Genova. Le indagini ripartono da tutto il materiale scoperto nell’abitazione che Pasquale Bonavota aveva preso in affitto: una serie di telefonini, alcuni santini, altre tre carte di identità senza immagine, documentazione sanitaria per visite e analisi di routine, manoscritti con nomi e cognomi, soprattutto un pizzino che il colonnello dei Ros D’Angelantonio ha definito di “rilevante interesse investigativo”. L’ipotesi più accreditata è che nell’appartamento genovese Bonavota vivesse da alcuni mesi. Apparentemente da solo, sicuramente senza la moglie che insegna a Sampiedarena e che vive in un altro quartiere. Non si esclude che precedentemente Bonavota si sia nascosto a Roma, epicentro dei suoi affari, o in Piemonte, tra Moncalieri e Carmagnola, l’altro “feudo” della sua famiglia, una sorta di Sant’Onofrio 2. Sui movimenti del boss lungo questi quattro anni e i suoi fiancheggiatori lavorano due procure: quella di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri e quella di Genova diretta da Nicola Piacente.

Gli affari dei Bonavota a Genova

Primo quesito? Chi ha fornito i documenti di identità a Pasquale Bonavota che in casa aveva ventimila euro in contanti. I soldi necessari non solo per le esigenze quotidiane ma anche per portare avanti una latitanza costosa e oleare tutti i meccanismi di protezione per evitare falle nella rete che lo nascondeva da occhi indiscreti. Seconda domanda? Perchè il latitante si era recato in cattedrale dove è stato poi arrestato – si è detto – mentre pregava? Doveva incontrare qualcuno? Genova è comunque una città che i Bonavota conoscono abbastanza bene. Il fratello di Pasquale, Domenico, considerato il capo dell’ala militare, oggi ristretto nel carcere di Sassari, è stato catturato proprio nel capoluogo ligure nel 2008 mentre era in spiaggia insieme a un suo sodale. Il clan di Sant’Onofrio – secondo quanto emerso da diverse indagini – si era ramificato anche in Liguria attraverso Onofrio Garcea, oggi in carcere dopo essere stato condannato in via definitiva a 7 anni e 9 mesi. Pasquale Bonavota sarebbe stato in affari con il figlio di Garcea, Davide, con il quale, insieme a un professionista romano, avrebbe puntato a rilevare imprese edili in difficoltà e usarle poi per il riciclaggio. Elementi preziosi già emersi nell’inchiesta “Assocompari-Rinascita 3” che punta a fare luce anche sugli interessi della cosca di Sant’Onofrio in Liguria.

Verso il carcere duro

I carabinieri cercavano Bonavota dal 2018, quando il boss si sottrasse alla cattura dopo una condanna per omicidio nell’ambito del processo “Conquista”. Nel dicembre 2019, quando scattò la maxi-operazione Rinascita Scott che ha decapitato le cosche vibonesi con 334 arresti, era già una primula rossa. Dal reato di omicidio Bonavota è stato poi assolto in appello ma su di lui continuava a pendere l’ordinanza emessa dal gip di Catanzaro su richiesta della Dda guidata da Nicola Gratteri, perché ritenuto la ‘mente’ della cosca. Era l’unico ancora latitante dell’inchiesta che nel frattempo si è trasformata nel più grande processo mai celebrato contro la ‘ndrangheta. Ora si trova ristretto nella casa circondariale di Genova, in isolamento. Per lui si prospetta il carcere duro e la Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro già nelle prossime ore farà richiesta per l’applicazione del 41 bis per evitare qualsiasi contatto con altri boss o sodali di ‘ndrangheta.

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