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Da Palermo a Catanzaro: la storia di Serafina Battaglia, prima donna collaboratrice di giustizia

Nonostante per alcuni anni non riuscisse a trovare un avvocato disposto a difenderla, testimoniò in diversi processi di mafia, tra cui a Catanzaro
serafina battaglia

di Bruno Gemelli – La palermitana Serafina Battaglia (1919-2004) è stata il primo testimone di giustizia in Italia. Questa storia, come quella della cenerentola Rosa Graziano, inizia in Sicilia, a Palermo, e finisce in Calabria, a Catanzaro.

Questo è l’antefatto. Il 30 giugno 1963 nella borgata agricola chiamata Ciaculli, alla periferia di Palermo, un’Alfa Romeo Giulietta imbottita di esplosivo saltò in aria procurando una strage in cui persero la vita sette militari. Il tenente dei Carabinieri Mario Malausa (la cui famiglia fu assistita dall’avvocato Mario Pittelli, padre dell’avvocato Giancarlo Pittelli, noto penalista del capoluogo), i marescialli Silvio Corrao della Polizia e Calogero Vaccaro dei Carabinieri, gli appuntati dei Carabinieri Eugenio Altomare e Marino Fardelli, il maresciallo dell’Esercito Pasquale Nuccio e il soldato Giorgio Ciacci. Una mattanza passata alla storia come ‘La strage di Ciaculli’.

Questo è l’antefatto. Il 30 giugno 1963 nella borgata agricola chiamata Ciaculli, alla periferia di Palermo, un’Alfa Romeo Giulietta imbottita di esplosivo saltò in aria procurando una strage in cui persero la vita sette militari. Il tenente dei Carabinieri Mario Malausa (la cui famiglia fu assistita dall’avvocato Mario Pittelli, padre dell’avvocato Giancarlo Pittelli, noto penalista del capoluogo), i marescialli Silvio Corrao della Polizia e Calogero Vaccaro dei Carabinieri, gli appuntati dei Carabinieri Eugenio Altomare e Marino Fardelli, il maresciallo dell’Esercito Pasquale Nuccio e il soldato Giorgio Ciacci. Una mattanza passata alla storia come ‘La strage di Ciaculli’.

Una delle più sanguinose stragi pensata ed eseguita dalla mafia palermitana. Una strage che concluse la prima guerra di mafia siciliana nel dopoguerra. Infatti, in quegli anni, Palermo era in preda a una guerra criminale che vedeva contrapposti i clan Greco e La Barbera, in lotta per la supremazia nel settore del traffico della droga. Angelo La Barbera dovette cedere lo scettro di primus inter pares della Conca d’oro alla nuova mafia di Tommaso Buscetta, Gaetano Badalamenti, Luciano Liggio, Totò Riina.

L’autobomba divenne il simbolo e lo strumento di morte più congeniale per quella specificità criminale. La strage di Capaci (23 maggio 1992), nella quale morirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, nacque mutuando quella modalità annientatrice.

La risposta dello Stato

Quale fu la risposta dello Stato di fronte a tanta violenza criminale? In Sicilia sbarcano migliaia di Carabinieri e l’isola venne rastrellata. Come era già successo anni prima durante la caccia al bandito Salvatore Giuliano. L’anno successivo, nel 1964, a seguito della strage di Ciaculli, fu costituita la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia che, negli anni successivi, si estenderà alle altre mafie con poteri giudiziari e sanzionatori mai esercitati dal Parlamento italiano. L’investigazione ipotizzò un mancato attentato preparato da Piero Torretta, Michele Cavataio, Tommaso Buscetta e Gerlando Alberti contro il boss di Ciaculli Salvatore Greco. Quando nel 1984 Tommaso Buscetta divenne collaboratore di giustizia disse, discolpandosi, che Michele Cavataio era stato l’unico responsabile della strage.

Da Palermo a Catanzaro

La fase istruttoria durò a lungo. Il processo, per decisione della Cassazione, fu trasferito da Palermo a Catanzaro per ‘legittima Suspicione’. E fu il primo grande processo contro la mafia siciliana. Che a quel tempo era la madre di tutte le mafie. Il capoluogo calabrese, quale unica sede regionale di Corte d’appello, era abituata a ospitare processi importanti e di livello nazionale. Già nel 1912 si tenne a Catanzaro il processo a carico dell’avvocato palermitano Paolo Paternostro, imputato per un delitto d’onore. Un altro processo rilevante fu, nel 1972, quello per la strage di Piazza Fontana.

Il processo iniziò a Catanzaro lunedì 23 ottobre 1967. Al cinema davano Bella di giorno di Luis Buñuel. Qualche giorno prima in Bolivia era stato ucciso Ernesto Che Guevara e qualche giorno dopo la Rai inaugurava la moviola. Il boom economico aveva concluso la sua fase propulsiva. Il Mezzogiorno d’Italia era abbandonato a se stesso, ma la speranza per una condizione migliore era sempre viva.

L’aula bunker venne creata all’interno della scuola elementare ‘Aldisio’, nella palestra, tra le proteste dei genitori e degli insegnanti. Anni dopo, per il processo di piazza Fontana, sarà creata un’apposita aula bunker all’interno del complesso del carcere minorile regionale. Che è tutt’ora in funzione. Fu allestito un sistema di sicurezza molto robusto. Furono impegnati 600 uomini tra Carabinieri e Polizia di Stato. Nonostante la presenza in città della Legione regionale dell’Arma furono richiesti rinforzi a Messina, Chieti, Napoli e Bari. A presiedere la Corte d’assise fu chiamato Pasquale Carnovale, a latere il giudice Gaetano Colosimo, e poi i giudici popolari. Pubblico ministero, Bruno Sgromo, che aveva svolto il medesimo compito durante il caso Silipo, il dirigente comunista ucciso il primo aprile 1965 e il cui delitto è rimasto misteriosamente impunito portandosi la zavorra di numerosi moventi.

La scia di guerra tra bande mafiose

Gli imputati presenti furono racchiusi in una grande gabbia (dodici metri per cinque) costruita con i tubi innocenti. Il gabbione fu diviso in due sezioni dove spiccavano rispettivamente i capi-banda Pietro Torretta, con gli occhiali affumicati ed elegante doppiopetto grigio, e Angelo La Barbera, catturato a Milano nel 1963, dopo essere rimasto ferito dai sicari di una cosca rivale. Sarà ucciso a coltellate nel carcere di Perugia il 1978. Gli imputati alla sbarra furono complessivamente 152 di cui 112 in stato di arresto a dimostrazione della scia di guerra tra bande mafiose fatta di decine di assassinii, estorsioni, attentati, culminati con la strage di Ciaculli, ma poi proseguiti con altre escalation.

Turismo giudiziario in grande spolvero

Per la cronaca bisogna aggiungere che il direttore del carcere di Catanzaro era un palermitano, Giuseppe Costantino. Sicché i detenuti poterono sentirsi a casa loro nella vecchia prigione del ‘San Giovanni’, oggi complesso monumentale restituito alle attività culturali della città. Catanzaro, abituata all’intensa attività giudiziaria, visse con distacco quell’evento, nutrendosi, però, di un boom turistico enorme proveniente dalla presenza in città di centinaia di ‘addetti ai lavori’ tra imputati, parenti degli imputati, testimoni, parti civili, giornalisti, avvocati (oltre ai locali c’erano i principi del foro di Palermo, Napoli, Roma), ufficiali e sottoufficiali delle forze dell’ordine, periti, studenti in giurisprudenza e, persino, curiosi in cerca di emozioni.

Un turismo giudiziario in grande spolvero. Ristoranti e bar pieni di ospiti e viaggiatori. Un indotto ristoratore sul commercio locale. Le cronache del tempo furono ricchissime di spunti. L’arcaicità della cultura mafiosa confliggeva, ma sino a un certo punto, con l’eleganza gangsteristica di molti imputati. Tra i tanti personaggi che popolarono quel processo si staccò per effetto scenico e intensità drammaturgica la figura di Serafina Battaglia. Una rappresentazione di tragedia greca. La si può vedere e ascoltare in un frammento di Rai Storia (Res Gestae Anni ’60), in cui accusa con la voce, con le mani, con la mimica, persino con gli occhi che fa roteare in un’azione coordinata con il resto del corpo. Fu la prima persona in Italia, in assoluto, ad accusare pubblicamente e ripetutamente nelle aule giudiziarie di Perugia e Catanzaro la mafia. Senza avvocato, senza soldi, messa all’indice in Sicilia, guardata con sospetto altrove, girò i tribunali di Catanzaro, Perugia, Bari e Lecce per testimoniare nei diversi processi di mafia che si tennero lontani dall’isola.

La portata epocale del pentimento antimafioso

L’unico appoggio lo ebbe dalla nipote Giovanna Guglielmini. I pochi aiuti li riceve dal giornalista Mario Francese e dal giudice Cesare Terranova, entrambi uccisi dalla mafia. Furono gli unici a capire la portata epocale del pentimento antimafioso di una persona che si poneva di traverso alla mafia contro ogni abitudine e convenzione. Serafina Battaglia fu la prima persona a infrangere il muro dell’omertà. E lo fece non tanto e non solo per riscattare la morte del suo compagno, quanto per vendicare l’assassinio del figlio Salvatore. Una spinta mossa dal turbamento causato dal sangue versato dal figlio. La donna depose indicando i nomi degli assassini, dei mandanti e degli esecutori. Insomma, divenne una testimone implacabile in moltissimi processi.

Morì a Palermo il 9 agosto 2004 all’età di 85 anni. Scrisse Fabrizio Giusti: “‘Mio marito [è Serafina che parla] era un mafioso e nel suo negozio si radunavano spesso i mafiosi di Alcamo. Parlavano, discutevano e io perciò li conoscevo uno a uno. So quello che valgono, quanto pesano, che cosa hanno fatto. Mio marito poi mi confidava tutto e perciò io so tutto. Se le donne dei morti ammazzati si decidessero a parlare così come faccio io, non per odio o per vendetta ma per sete di giustizia, la mafia in Sicilia non esisterebbe più da un pezzo. Ad Alcamo Serafina Battaglia lasciò il marito per vivere con Stefano Leale e con suo figlio Salvatore, avuto dal marito abbandonato. La cosa, già di per sé, risultava essere scandalosa a quel tempo. Stefano Leale era un mafioso. Secondo sua moglie l’ordine per la sua esecuzione era arrivato dai Rimi, quegli stessi mafiosi che trascorrevano i pomeriggi nella sua bottega di caffè. Non appena Salvatore, il figlio della vedova, fu in età adulta, meditò la vendetta. L’attentato contro i presunti mandanti, però, fallì. La rappresaglia di risposta andò invece a segno”.

Una strada inaspettata

Il 30 gennaio 1962 Salvatore venne assassinato come il suo patrigno. È a quel punto della vicenda che la storia di Serafina Battaglia imbocca una strada inaspettata. Chiese aiuto ai giornalisti, ma l’unico a venirle incontro fu Mario Francese, che nelle sue inchieste, in seguito, entrò profondamente nell’analisi dell’organizzazione mafiosa, specie di quella corleonese legata a Luciano Liggio e Totò Riina. La sera del 26 gennaio 1979 verrà assassinato di fronte alla sua casa di Palermo. Per il suo assassinio vennero condannati: Totò Riina, Leoluca Bagarella (che sarebbe stato l’esecutore materiale del delitto), Raffaele Ganci, Michele Greco (detto «u papa»), Francesco Madonia e Bernardo Provenzano.

Le motivazioni della condanna in appello

Queste le motivazioni della condanna nella sentenza d’appello: “Il movente dell’omicidio Francese è sicuramente ricollegabile allo straordinario impegno civile con cui la vittima aveva compiuto un’approfondita ricostruzione delle più complesse e rilevanti vicende di mafia degli anni ’70”.

Mario Francese è un giornalista poco ricordato dai media. Francese raccontò che in soccorso di Serafina Battaglia giunse il giudice Cesare Terranova, anch’egli ammazzato dalla mafia il 25 settembre 1979. La donna non aveva nemmeno un avvocato. Mettersi contro i boss di Alcamo era impresa ardua: erano mafiosi potenti, capaci di avere agganci tra numerosi esponenti politici per aggiustare, come si diceva in gergo, i processi. Serafina, con grande coraggio, depose a Perugia, a Catanzaro e in tutti quei tribunali dove per ‘legittima suspicione’ si celebrarono decine di processi.

La deposizione di Serafina Battaglia a Catanzaro

Serafina Battaglia a Catanzaro depose il 6 novembre 1967. Annotò l’inviato speciale del Giornale di Sicilia, Mario Rosolino: “Serafina Battaglia, la vedova con la colt, l’implacabile accusatrice della mafia che le ha fatto fuori prima il suo uomo e dopo il figlio, è entrata di prepotenza nella cronaca della settima udienza del processo contro i 113 mafiosi palermitani che si celebra a Catanzaro per legittima suspicione. C’è entrata con una lettera alla Corte che è una violenta invettiva contro l’avvocato Pugliese che, durante l’interrogatorio di Vincenzo Rimi, commentando alcune dichiarazioni della Battaglia contenute nelle carte del giudice Terranova, citando la sentenza di Perugia, l’ha definita ‘mitomane e bugiarda’. Serafina Battaglia si è indignata ed è esplosa: Nessuno – sostiene – a Perugia le ha mai dato della mitomane; bugiardo è proprio colui che afferma il contrario. Poi continua con dei pesanti apprezzamenti, passibili di querela per diffamazione”.

Nelle sue deposizioni Serafina Battaglia schiuma di rabbia, inveisce, racconta dettagli, ricostruisce situazioni, descrive l’ambiente, disegna i profili dei suoi accusati. Ed è persino ironica. Un particolare notato da Mario Francese che scrisse: “L’accusatrice della mafia non avrebbe di certo potuto trattenere il suo noto sorriso di sarcasmo sulle labbra se presente all’interrogatorio”.

“Conoscete Torretta?”, avrebbe esclamato la Battaglia: “Vestitelo col frac e vi accorgerete chi è. Più si acconcia, più si impomata e più contadino appare. Un contadino che non potrà mai sostituirsi a La Barbera perché è rimasto ancorato alla tradizione della lupara». Nella seduta del 29 marzo 1967 davanti al presidente Carnovale si consumò la scena madre. Serafina Battaglia si stese per terra, prona davanti alla Corte. Raccontando: “Le sciagure che colpirono e distrussero la mia famiglia ebbero origine nel legame stabilitosi con la famiglia Corrado. Nel 1956, infatti, mio marito acquistò case e terreni in territorio di Villafrati, in contrada Serra, proprio vicino alla proprietà dei Corrado. Per questa ragione tra la mia famiglia e la famiglia si instaurarono rapporti di amicizia”.

La storia mafiosa dei Corrado

E giù a narrare la storia mafiosa dei Corrado. Il professor Alfredo De Marsico, uno dei più grandi avvocati italiani del tempo, dopo aver ascoltato la deposizione di Serafina la definì “un’enciclopedia ambulante, l’epicentro sismico, la storiografa della mafia”. Implacabile. Martellante. Affrontò i faccia a faccia con i nemici giurati spavaldamente. A stenti trattenne l’emozione che la pervase, mai un attimo di esitazione dal deviare il suo percorso mentale, il suo obiettivo finale. Mettere con le spalle al muro il gotha della mafia siciliana. La donna, listata a lutto, nel confronto con Giovanni Russo gli dice: “Lei non mi conosce? Signor Presidente, lo giuro davanti a Dio, lo giuro davanti a questo sangue: Giovanni Russo mente!”.

Poi, rivolta a Russo: “Non ricorda che lei è venuto a cercarmi perché don Turiddu era scappato?”. E Russo di rincalzo: “Ma come fa lei a inventare tutte queste cose?”. E la Battaglia sempre più decisa: “Lei sa tutto e non può parlare, glielo hanno impedito; io invece ho vissuto tutti i vostri movimenti e lei lo sa!”.

Le prove affrontate

La teste Battaglia affrontò tante prove perché si dovette confrontare con quasi tutti gli imputati. Ma non cedette mai di un millimetro. Sempre all’attacco. Con una lucidità e una fibra veramente notevole, come raccontano gli atti processuali e le cronache del tempo. Particolarmente drammatico risultò il confronto con Vincenzo e Filippo Rimi, ossia quegli imputati che a Perugia proprio per la sua implacabile accusa, assieme a Rocco Semilia, furono condannati alla pena dell’ergastolo, non più tardi di venti giorni dall’udienza di Catanzaro.

Dalla gabbia gli imputati gridarono ripetutamente a Serafina Battaglia: “Sei una pazza!”. E lei, rivolgendosi, a Torretta: “A Vossia tocca l’inferno!”. È fatalista quando dice: “Io dirò sempre la verità tanto lo so che non c’è due senza tre [alludendo alla morte del compagno e del figlio], la mia ‘spirazione’ è il cimitero”. Mescola un buon italiano con qualche espressione dialettale. Dietro quella maschera di disperazione emerge la fierezza e, anche, la bellezza antica.

La strategia degli imputati

La strategia degli imputati fu di farla passare per una pazza isterica. Vestita di nero dalla testa ai piedi, il volto sempre coperto, svelandosi ogni tanto quando qualche affermazione dei suoi contro-accusatori le sembrò eccesiva. Come quando disse a Leonardo Leale: “Tu non puoi ammettere queste cose, altrimenti rinnegheresti il tuo spirito mafioso”. Suo marito era mafioso. E lei non lo negò mai. Anzi. Nella lunga deposizione del 1° marzo 1968 spiegò anche le gerarchie della nomenclatura mafiosa. Era la prima volta che accadeva che la mafia veniva denudata didascalicamente.

La vicenda della donna si tirò dietro tanti commenti, tra cui quello di Attilio Bolzoni (‘la Repubblica’, 10 settembre 2004): “Avvolta nel suo scialle nero si fece largo tra i parenti degli imputati, lentamente si avvicinò alla gabbia dove erano rinchiusi i mafiosi più potenti. Guardò con disprezzo un uomo e gridò: ‘Tu Marco, tu hai bevuto il sangue del mio Totuccio e perciò io, qui, davanti a Dio e davanti agli uomini, ti sputo in faccia’. E così fece. Poi si inginocchiò davanti ai giudici, baciò a terra, alzò la mano destra, disegnò una croce nell’aria e gridò ancora: “Tutti i mafiosi sono cornuti”. Marco Semilia detto ‘il malato’ balbettò: “Eccellenza, permette una parola?”.

Il silenzio

Nell’aula calò il silenzio e la folla dei parenti sparì all’improvviso. Gli strilloni dell’’Ora’, quotidiano palermitano della sera, si misero agli angoli di ogni strada e urlarono fino al tramonto: “Una donna accusa i boss, una donna accusa i boss”. Era Serafina Battaglia. Se n’è andata a ottant’anni la vecchia Serafina che una volta andava in giro con la Colt nascosta nel corpetto, morta sola in quella sua casa di corso Camillo Finocchiaro Aprile, corso Olivuzza lo chiamano a Palermo, che lei aveva trasformato in un santuario. Da quando i Rimi di Alcamo le avevano fatto uccidere prima il marito Stefano Leale e poi il figlio Totuccio, Serafina aveva sistemato in una stanza quella specie di altare.

Drappi di velluto bianco e nero, candelabri, fiori di plastica e le foto di Stefano e di Totuccio, due mafiosi come tanti nella Sicilia a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta dove le ‘famiglie’ si davano battaglia a colpi di lupara e di ‘Giuliette’ imbottite di tritolo. Serafina aveva provato a vendicarsi, a farsi giustizia da sola scatenando gli amici del marito contro i Rimi, i ‘mammasantissima’ di Alcamo. Ma non c’era riuscita. Per un po’ si era rassegnata. Ogni sera dieci padrenostro e dieci avemaria e un gloria al padre in ricordo dei suoi morti. Chiese perfino al cardinale Ernesto Ruffini di consacrare l’altare del suo ‘santuario’, voleva far venire un prete nella sua casa per celebrare messa.

I nomi della prima pentita nella storia della mafia palermitana

Poi Serafina esplose come un vulcano. Cominciò a fare nomi, tanti nomi. Diventò la prima pentita nella storia della mafia palermitana. Depose in istruttoria con il giudice Cesare Terranova (che fu ammazzato anni più tardi dai Corleonesi), depose a Perugia, a Catanzaro, a Bari, a Lecce, in tutti quei tribunali dove per ‘legittima suspicione’ si celebrarono i processi contro centinaia e centinaia di boss. Manco a dirlo, tutti furono assolti tra il primo e l’ultimo grado per insufficienza di prove, formula classica di quei dibattimenti aggiustati da celebri avvocati che andavano a braccetto con giudici assai prudenti o prezzolati, processi farsa dove si negava perfino l’esistenza di quella cosa che qualcuno chiamava mafia.

Condanne all’ergastolo che si alternavano ad assoluzioni

Ma Serafina li fece tremare per un decennio quei “galantuomini”. Da Marco ‘il malato’ fino allo ‘zio Vincenzo’ di Alcamo. Condanne all’ergastolo che si alternavano ad assoluzioni, cavilli, perfino un rapporto di un procuratore della Repubblica di Palermo inviato in Cassazione che scagionava gli intoccabili Rimi. Quelli indicati da Serafina come i mandanti degli omicidi del suo Stefano e del suo Totuccio. Pazza, la consideravano pazza quella donna che si copriva sempre con lo scialle nero. Per qualche anno, non era riuscita neanche a trovare un avvocato disposto a difenderla.

Gliel’aveva cercato solo Mario Francese, il cronista giudiziario del ‘Giornale di Sicilia’ che una ventina di anni dopo sarebbe stato ucciso anche lui. Francese fu il primo a intervistare Serafina. Poi si mise alla caccia di un penalista, quelli di Palermo si rifiutarono tutti. Dissero di Serafina nelle loro arringhe, i principi del foro Alfredo De Marsico, Girolamo Bellavista e Ivo Reina: “Si cerca di creare una mitica figura di madre in Serafina Battaglia. Già altre volte la Sicilia ha sollevato il caso di una madre oppressa dal dolore e dall’odio nei confronti dei presunti assassini e pronta perciò a clamorose rivelazioni… Le prove signor Presidente, le prove”.

Prove introvabili

Le prove non le trovarono mai. Soltanto il giudice Cesare Terranova cercò un po’ di verità. Nell’aprile del 1966 chiese a Serafina: “Ma lei, come fa a sapere tutte queste cose?”. Rispose la donna con lo scialle nero: “Mio marito era un mafioso, nel suo negozio di torrefazione si radunavano quelli di Baucina e di Alcamo, li conosco a uno a uno, so quello che hanno fatto. Poi mio marito mi confidava tutto. Se le donne dei morti ammazzati si decidessero a parlare come faccio io, la mafia in Sicilia non esisterebbe più da un pezzo”.

Il saggio “L’Ape furibonda”

Questa storia è un capitolo de “L’Ape furibonda” (Rubbettino, 2018), raccontato dal sottoscritto, e si trova all’interno dell’omonimo saggio, i cui coautori sono stati Claudio Cavaliere e Romano Pitaro. “La solita telefonata”, commentò l’appuntato al centralino della stazione dei Carabinieri di Roccella, periferia di Palermo, porgendo il messaggio sulla scrivania del tenente Mario Malausa. L’ufficiale prese il foglietto e diventò subito pensieroso. Sapeva che Villa Serena di Ciaculli non era un posto qualunque. Vi abitava Totò Greco; la segnalazione era quindi di massimo interesse. Il giovane ufficiale ordinò subito di mandare una pattuglia a piantonare l’automobile sospetta. – Che nessuno la tocchi e nessuno si avvicini! –. La Prefettura e la Questura del capoluogo siciliano si mobilitarono subito dando ordini precisi. Sul posto si recarono uomini della Polizia, dei Carabinieri e anche gli artificieri dell’Esercito. L’esca provocò la strage. E una domanda: perché colpire le forze dell’ordine se l’esplosivo era destinato a una cosca concorrente?

Una mostruosità senza confini

La mostruosità del crimine era senza confini. Un solo carabiniere, gravemente ferito e rimasto paralizzato per il resto della vita, si salvò. La famiglia Malausa, piemontese di Cuneo, fu la prima parte civile, e una delle pochissime, a costituirsi nel processo che si celebrò anni dopo a Catanzaro. I Malausa furono assistiti dall’avvocato Mario Pittelli, padre dell’avvocato Giancarlo Pittelli, noto penalista del capoluogo. La maggior parte delle famiglie delle vittime che potevano (e dovevano) costituirsi parti civili rinunciarono per evitare ritorsioni mafiose.

Il parterre degli avvocati

Numeroso e qualificato il parterre degli avvocati. Si ricordano i nomi degli avvocati Titta Madia, Di Benedetto, Aldo e Mario Casalinuovo, Giglio, Bellavista, De Marsico, De Martino, Dominijanni, Ruvolo, Ambrosini, Marino, Li Muti, Marazzita, Giurato, Mazzuca, Domenico e Mario Pittelli, Seta, Alfredo e Nicola Cantafora, Mormino, Corigliano, Pugliese, Pio Marini e Carlo di Martino. Questi due ultimi avvocati del foro di Roma difesero “don” Saro Mancino che, secondo il giornalista Mario Rosolino, era il trade union con i trafficanti di droga nel quadrilatero Usa-Marsiglia-Tripoli-Palermo.

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