rinascita scott

Il Rosario al lunedì, la latitanza con i barboni e le “bugie” di Mantella. Pasquale Bonavota: “Adesso parlo io”

Le dichiarazioni spontanee del presunto boss nel maxiprocesso: "Latitante senza averlo scelto ma sempre innocente. Ho pensato di suicidarmi"

Nel mezzo della requisitoria del pool di magistrati guidati da Nicola Gratteri irrompe Pasquale Bonavota e le sue dichiarazioni spontanee rilasciate in videocollegamento con l’aula bunker di Lamezia Terme dal carcere di Genova dove si trova recluso dallo scorso mese di aprile concludono un’altra udienza fiume di “Rinascita Scott”, il maxiprocesso contro la ‘ndrangheta vibonese ormai alle battute finali. Il presunto boss di Sant’Onofrio chiede la parola e parla per oltre venti minuti. “Sono Bonavota Pasquale…”, esordisce presentandosi al giudici del Tribunale collegiale di Vibo Valentia che gli avevano concesso la parola dopo una breve interlocuzione con il suo difensore, l’avvocato Tiziana Barillaro: “Chiedo scusa per la mia lunga assenza ma sia chiaro – precisa – non ero latitante, ero innocente”.

“Ho pensato di suicidarmi”

“Ho pensato di suicidarmi”

Catturato a fine aprile nella cattedrale di Genova, Pasquale Bonavota aveva già rotto il silenzio con delle brevi dichiarazioni spontanee contestando l’informativa del Ros depositata dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro agli atti del processo poco prima dell’avvio della requisitoria (LEGGI QUI). In questo caso l’ex latitante entra nei dettagli delle accuse a lui rivolte e il suo principale obiettivo sembra essere quello di demolire le dichiarazioni d’accusa rese contro di lui da una dozzina di pentiti. Uno in particolare lo cita spesso: è Andrea Mantella. Molti dei suoi guai partono, in effetti, dalle rivelazioni fornite alla Dda di Catanzaro proprio dall’ex boss scissionista diventato collaboratore di giustizia. A riferirlo è lo stesso Bonavota che dinnanzi al Tribunale collegiale di Vibo Valentia riassume parte dei suoi problemi con la giustizia partendo da una data specifica: il 13 dicembre del 2016. E’ il giorno del blitz denominato in codice “Conquista”. I carabinieri bussano alla porta della sua casa di Roma e lo arrestano. E’ accusato degli omicidi di Domenico Di Leo e Raffaele Cracolici avvenuti nel 2004 tra Sant’Onofrio e Pizzo. Il suo principale accusatore è Andrea Mantella. “Nonostante sapessi della sua collaborazione – spiega Bonavota – non ho mai pensato di allontanarmi e di fuggire a un futuro arresto. Avevo la coscienza a posto. Rammento che la sua collaborazione avviene nel maggio 2016 e già a giugno era di dominio pubblico in quanto ogni giornale ne riferiva la notizia complessiva di verbali di dichiarazioni”. Ricorda di essere stato arrestato e scarcerato con ricorso accolto dalla Corte di Cassazione. Da uomo libero assiste alla condanna all’ergastolo avvenuta il 23 novembre del 2018: “Sono stato – riferisce ai giudici di Rinascita Scott – inaspettatamente condannato. Non ho accettato questo verdetto che ritenevo profondamente ingiusto. Ero innocente e non riuscivo a reagire più all’ennesima ingiustizia giudiziaria. Era troppo anche per un combattente come me. La mia vita finisce in quel momento. L’ennesimo dolore, l’ennesima sofferenza del tutto gratuita che hanno preso il sopravvento. Per questo avevo deciso di suicidarmi e mettere fine a tutto ma non nascondo che non ci ho provato nemmeno per un istante perché non è facile fare una cosa del genere, ci vuole un coraggio impressionante che io non ho mai avuto”.

“Latitante senza averlo scelto”

Di quel 23 novembre 2018 ricorda tutto: “Era un venerdì e come tutti i venerdì, i sabati e le domeniche ero a casa nell’attesa che mi venissero ad arrestare”. Per tutto il week end nessuno bussò alla sua porta. “Lunedì pomeriggio verso le 17 esco di casa.  Mentre cammino mi accorgo di essere seguito da quattro o cinque carabinieri in borghese. Mi rendo subito conto che mi stavano arrestando. In quel momento ho pensato a quella che era stata la mia vita e cosa sarebbe diventata da lì a qualche minuto. La mia mente mi mette davanti a due possibilità: decidere di vivere o morire. Ho scelto di morire. Non avevo avuto il coraggio di mettere in pratica il suicidio. Allora ho deciso di morire per mano di altri. Mi sono detto, quale migliore possibilità che quella di provare a sfuggire alla cattura  e mettere i carabinieri nella condizione di uccidermi. Ho iniziato a fuggire. Corro, corro così tanto come non avevo fatto in vita mia. Ma nessuno spara e nessuno mi segue”. Bonavota dice di essersi trovato latitante senza averlo scelto. Il racconto prosegue e si cambia location: da Roma a Genova: “Giro per la città di Genova, lo faccio per tutta la notte, non sapendo dove andare. La mattina entro nella prima chiesa che trovo aperta. Piangevo e piangendo mi rivolgo a Gesù, come mai avevo fatto con lui. Gli parlo come se fosse un mio compagno di banco a scuola. Mi incavolo pesantemente e con forza gli dico: ‘Ho sempre creduto in te, ti ho amato. Ho sbagliato ma da tantissimi anni ho affidato la mia vita a te’“. Bonavota si definisce “il più grande peccatore del mondo” ma “credente”. Racconta di essersi rifugiato in Gesù e di avere avuto “la forza per reagire, combattere, andare avanti”. Il suo rapporto con la fede è ricorrente. A Genova dice di aver dormito per un mese come un barbone e insieme ai barboni: “In loro ho trovato un’umanità indescrivibile e non vedo l’ora di poterli abbracciare uno a uno”. Spiegando il contenuto di alcuni appunti trovati nella casa dove si nascondeva rivela di aver frequentato “da credente” diverse chiese di Genova: “Tutti i lunedì mi recavo nella chiesa della Parrocchia San Donato per recitare il Rosario…”. Sacro e profano che si mescolano in un racconto dove Bonavota cerca di spiegare i motivi della sua “lunga assenza”: “Sono certo che se non avessi fatto così non sarei più in vita. Voi giustamente non potrete mai capirmi. Come potete giustificare una persona che si sottrae alla giustizia?”, si chiede rivolgendosi al Collegio giudicante invitato a ficcarsi per un momento “nella sua pelle e provare il dolore che ha provato”.

La strage dell’Epifania e le accuse di Andrea Mantella

C’è un’altra data importante nella vita di Pasquale Bonavota. E’ quella del 17 novembre del 2021 quando la la Corte d’Assise d’appello di Catanzaro lo assolve per tutti e due gli omicidi: “Non è stato lui a commetterli” dicono i giudici con quella sentenza divenuta definitiva perché non appellata dalla Dda di Catanzaro. “Quel verdetto – aggiunge – non mi ha soddisfatto perché non ha messo nero su bianco che Mantella ha detto il falso contro la mia persona”. Per minare la credibilità del pentito vibonese, Bonavota richiama gli anni della guerra di mafia con i Petrolo che gli sono valsi il titolo di “boss-bambino”. Mantella in persona lo accusa di essere stato l’esecutore materiale dell’omicidio di Domenico Moscato, avvenuto a Sant’Onofrio il 4 gennaio del 1991, poche ore prima della cosiddetta “strage dell’epifania”. Il presunto boss di Sant’Onofrio all’epoca dei fatti neanche diciottenne prova a smentirlo: “Quando fu compiuto quell’omicidio io ero in Canada con i miei nonni. Sono partito a ottobre e sono rientrato a marzo”. Rivolgendosi all’Ufficio di Procura chiede di controllare il passaporto dell’epoca sequestrato dai carabinieri e dà diverse indicazioni a riscontro di quanto da lui affermato. L’obiettivo? Dimostrare che Mantella dice il falso.

“Non ero latitante, ero innocente”

Da latitante era stato accusato anche dell’omicidio di Domenico Belsito, ucciso a Pizzo nel 2004. Anche qui il suo principale accusatore era Andrea Mantella. L’imperfetto è doveroso perché il gup di Catanzaro nel luglio del 2022 lo ha nel frattempo assolto rigettando la richiesta di ergastolo formulata dalla Dda: “Ancora una volta vi dico – insiste Bonavota – che non ero latitante, ero innocente”. Ora è imputato in Rinascita Scott con l’accusa di essere il capo della cosca di Sant’Onofrio. Associazione mafiosa è il reato principale contestato dagli inquirenti. “Sono accusato da circa 13 o 14 collaboratori, tutti riferiscono contro la mia persona per sentito dire perché hanno letto il tutto nei vari giornali e dicono che io sia il capo di Sant’Onofrio nonostante viva a Roma. Vi assicuro che non faccio parte di nessuna associazione. Dimostrerò la mia innocenza e un giorno qualcuno mi dovrà delle scuse”.

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