di Mimmo Famularo – Due anni e otto mesi di reclusione con lo sconto di un terzo della pena per aver scelto di essere processato con il rito abbreviato. E’ la condanna inflitta dal gup di Catanzaro Barbara Saccà all’avvocato Domenico Grande Aracri (fratello del boss Nicolino) nell’ambito del processo “Farmabusiness” le cui motivazioni sono state depositate nelle scorse ore (LEGGI QUI). Il legale è stato ritenuto colpevole di intestazione fittizia di beni e nei suoi confronti ha anche retto l’aggravante dell’agevolazione mafiosa contestata dalla Dda di Catanzaro. Per il giudice il ruolo da lui ricoperto “non può considerarsi minimale nella vicenda” avendo messo a disposizione “le sue competenze tecniche per concorrere nel reato prestandosi come ‘volto pulito’ della consorteria per cui ha operato”. Secondo l’accusa, infatti, Domenico Grande Aracri ha avuto un ruolo importante per la buona riuscita dell’affare dei farmaci e la famiglia gli avrebbe assegnato il compito di “sovrintendere alle operazioni societarie, stabilendo gli introiti e le quote occulte da destinare alla bacinella della locale di Cutro quale reimpiego dei fondi illeciti investiti”. Una tesi alla quale si era opposta la difesa dell’imputato evidenziando una presunta “contraddittorietà del capo di imputazione” giacché Domenico Grande Aracri “avrebbe commesso l’intestazione fittizia per occultare se stesso”. In particolare, viene richiamata anche una sentenza del gip di Catanzaro di non luogo a procedere nell’ambito del processo “Kyterion” appellata dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro che ritiene, invece, Domenico Grande Aracri una sorta di “mente affaristica del clan” e non solo un semplice avvocato (LEGGI QUI). Un’altra vicenda giudiziaria ancora sub judice visto che la Corte di Cassazione ha ordinato un nuovo giudizio dinnanzi al gip di Catanzaro annullando la precedente sentenza. Ma questa è un’altra storia.
La conversazione intercettata nella tavernetta dei Grande Aracri
La conversazione intercettata nella tavernetta dei Grande Aracri
Il gup Barbara Saccà si sofferma ovviamente sull’affare “Farmaeko” e richiama il contenuto dell’intercettazione avvenuta nella tavernetta dei Grande Aracri nel quale gli stessi familiari “affermano direttamente di aver già investito soldi nell’affare (Salvatore Grande Aracri e Leonardo Villirillo) o che stavano per investirli (Giovanni Abramo) o che avrebbero dato il via all’investimento (Giuseppina Mauro) anche garantiti dalla presenza, quale curatore degli affari, di Domenico Grande Aracri”. Per il giudice da questa conversazione emerge che i suoi parenti, per loro stessa ammissione, avessero già investito dei soldi o li avrebbero dovuto investire, attraverso ‘metodi’ idonei a dissimulare la provenienza del denaro ma che, al contempo, garantissero il controllo patrimoniale e finanziario da parte della ‘famiglia’. In questo contesto si rivela “essenziale” il ruolo di Grande Aracri “per dissipare i dubbi sul coinvolgimento di altri membri della famiglia, essendo lui un avvocato”. La conversazione intercettata nella tavernetta “non è l’unico elemento di prova” ma – per il gup – rappresenta “il catalizzatore di tutti gli elementi di prova (compresi quelli forniti dalla difesa) che denotano con chiarezza il ruolo assunto dal Grande Aracri e il suo pieno coinvolgimento nella vicenda dei farmaci”.
L’aggravante mafiosa
Il giudice spiega anche la sussistenza dell’aggravante mafiosa e la lega alle operazioni di trasferimento fraudolento di valori “funzionali al rafforzamento della cosca e, segnatamente, alla sua attitudine a espandersi nei settori di mercato particolarmente redditizi, quali quello dei farmaci e con propensione all’estensione di tutto il territorio italiano e con prospettive anche di rafforzamento all’estero (si pensi alla possibilità di commercio dei farmaci oncologici con la Gran Bretagna)”.
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